Io se dessi retta vivrei dentro al mio passato come dentro a una stanza insonorizzata. Ma non si può, lo capisco che non si può, e allora mi armo d'intraprendenza ed esco. Uscendo ho intercettato l'amore, mi stava cercando: ho avuto il merito di lasciare aperto un soffio di porta e così è entrato, e ha preso gioiosamente possesso di me. Ma se fossi ancora in pena, o avessi chiuso per sempre bottega, m'arrampicherei. Con le mani, coi piedi, le unghie rotte, i ginocchi sanguinanti, su per la memoria, che è una montagna impervia, butterata di fossi, dirupi, pozze d'acqua avvelenata. Come ho fatto per tanto tempo senza arrivare mai in cima. Giochiamo però - un'altra volta - a fingere che il passato sia la parte migliore della mia vita. Vi va?
Trent'anni sono trent'attimi, a guardarli a ritroso. Nel 1985 dovevo ancora capire il senso del liceo classico, e non vedevo come uscirne. Iniziai a combattere proprio allora, però, con atti, parole, opere e omissioni. Combattere è sempre stato il mio sistema, pur con lunghe pause di inerte afflizione. Poi ricominciavo: contro mio padre, Alessandra, me stesso. Contro chi amavo, perché si guerreggia con quelli a cui tieni. Compravo una marea di 33 giri, all'epoca, e al ritorno a casa era impossibile nasconderli per non far vedere che avevo buttato via altri soldi. Comprai il primo disco solista di Dodi Battaglia e ci trovai cose che s'intonavano alla mia imperfezione. Me la corteggiavano, quelle canzoni, la mia parziale giovinezza, me la spezzavano in modo che potessi capirla - facilitata - un po' per volta, e rallegravano. Da Perugia, alla visita di leva, spedii una cartolina con sopra la frase di un pezzo, quella che più mi sembrava scritta a misura della mia vita in quel momento. Poi ho cominciato io a scriverne, di parole. Tante, gran parte delle quali indivulgabili. E ogni parola era appunto una guerra, una strategia militare. Ho scritto quelle che qualcheduno chiama poesie e gli ho dato un titolo: Parole da combattimento. Mai pubblicate. E mai nemmeno lo farò. Ma avevano una direzione, credo. Ho fatto della mia vita quel che ho voluto, un po' per passione un po' perché non avrei saputo fare altro. Ho amato pochissime persone ma in modo straziante: non si ama così, è da pazzi. Nel 2003 - già un altro mondo, un altro Francesco - Dodi volle fare un altro disco: strano stavolta, senza parole, e io ci rimasi un po' male. Senza parole non potevo immedesimarmi, ero disarmato. Era malinconico, però, e raccontava già dal titolo la solitudine come un valore, o almeno così a me parve. Pian piano me ne innamorai - meno repentinamente del primo ma alla fine con la stessa intensità - e lo misi, in sottofondo, a sollievo di certe sere furibonde di insonnia e malattia.
Ecco come siamo sopravvissuti fino a oggi, cauterizzando le ferite con la musica. E domani arriva il terzo disco di Dodi. Sarà che il suo cognome s'intona con la mia interpretazione della vita. Sarà che ogni volta che ha fatto un disco la mia esistenza è cambiata, come ora, con un testa coda. Sarà che a quelli che combattono dio è grato perché nobilitano di tigna la sua creazione. Sarà che se non avessi lottato per ogni metro di vita non sarei qui a raccontarne. Ma domani - al netto delle piaghe di ieri e della pienezza di oggi - voglio scoprire per la terza volta cosa confiderà ai miei diciottannipiùtrenta quest'uomo così artista come così tanti in giro non vedo.
Trent'anni sono trent'attimi, a guardarli a ritroso. Nel 1985 dovevo ancora capire il senso del liceo classico, e non vedevo come uscirne. Iniziai a combattere proprio allora, però, con atti, parole, opere e omissioni. Combattere è sempre stato il mio sistema, pur con lunghe pause di inerte afflizione. Poi ricominciavo: contro mio padre, Alessandra, me stesso. Contro chi amavo, perché si guerreggia con quelli a cui tieni. Compravo una marea di 33 giri, all'epoca, e al ritorno a casa era impossibile nasconderli per non far vedere che avevo buttato via altri soldi. Comprai il primo disco solista di Dodi Battaglia e ci trovai cose che s'intonavano alla mia imperfezione. Me la corteggiavano, quelle canzoni, la mia parziale giovinezza, me la spezzavano in modo che potessi capirla - facilitata - un po' per volta, e rallegravano. Da Perugia, alla visita di leva, spedii una cartolina con sopra la frase di un pezzo, quella che più mi sembrava scritta a misura della mia vita in quel momento. Poi ho cominciato io a scriverne, di parole. Tante, gran parte delle quali indivulgabili. E ogni parola era appunto una guerra, una strategia militare. Ho scritto quelle che qualcheduno chiama poesie e gli ho dato un titolo: Parole da combattimento. Mai pubblicate. E mai nemmeno lo farò. Ma avevano una direzione, credo. Ho fatto della mia vita quel che ho voluto, un po' per passione un po' perché non avrei saputo fare altro. Ho amato pochissime persone ma in modo straziante: non si ama così, è da pazzi. Nel 2003 - già un altro mondo, un altro Francesco - Dodi volle fare un altro disco: strano stavolta, senza parole, e io ci rimasi un po' male. Senza parole non potevo immedesimarmi, ero disarmato. Era malinconico, però, e raccontava già dal titolo la solitudine come un valore, o almeno così a me parve. Pian piano me ne innamorai - meno repentinamente del primo ma alla fine con la stessa intensità - e lo misi, in sottofondo, a sollievo di certe sere furibonde di insonnia e malattia.
Ecco come siamo sopravvissuti fino a oggi, cauterizzando le ferite con la musica. E domani arriva il terzo disco di Dodi. Sarà che il suo cognome s'intona con la mia interpretazione della vita. Sarà che ogni volta che ha fatto un disco la mia esistenza è cambiata, come ora, con un testa coda. Sarà che a quelli che combattono dio è grato perché nobilitano di tigna la sua creazione. Sarà che se non avessi lottato per ogni metro di vita non sarei qui a raccontarne. Ma domani - al netto delle piaghe di ieri e della pienezza di oggi - voglio scoprire per la terza volta cosa confiderà ai miei diciottannipiùtrenta quest'uomo così artista come così tanti in giro non vedo.
"Grazie", il primo singolo dal nuovo album:
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