Mi sono innamorato di Erri a leggere I pesci non chiudono gli occhi, frammento poetico - a fiotti di memoria senza capitoli - dell'adolescenza. Tutti siamo stati presi a quell'età da una ragazza più grande di noi, che un po' se la tirava un po' le facevi sangue se la guardavi. E il mare era il posto meno indicato per scoprire la vergogna della prima erezione in pubblico. Una volta al mare mio padre lesse per intero Tex Willer, avvicinandosi a me, anzi abbassandosi al mio livello per il tramite di una passione da solitari. C'era un signore che a casa sua, a Firenze, sopra un tavolo per non stancarsi un poco spiovente, disegnava l'America del secolo prima, i mustang, le scorribande dei predoni, i Navajos e i cacciatori di scalpi, e i bounty-killers e le donne temprate delle fattorie costruite nel nulla e nel vento. Si chiamava Erio, e io per anni pensai si fossero sbagliati a scriverlo, pensavo fosse Elio, come un mio zio alla lontana, o al massimo che il suo cognome - Nicolò - fosse in realtà il nome e quindi Erio il cognome, e che perciò lo scrivessero al contrario, come a scuola dove non hai battesimi e nessuno ti chiama Francesco e fanno di tutto per disamorarti della confidenza. Papà disse che quei disegni gli piacevano e io il mese dopo - era arrivato settembre - comprai il seguito e lo lasciai a bella posta nei suoi paraggi ma lui lo ignorò. Forse il mare gli aveva smascherato la consueta irsuta severità e a casa era tornato a vestire la parte. Forse aveva dimenticato che Tex era nei guai dalla fine di agosto, a pagina 114, dietro una duna coi proiettili contati e che aveva bisogno anche di lui per cavarsela. Se non li leggiamo gli eroi muoiono: necessitano di una mano da noi per sfangarla ogni volta. Quella volta Tex morì. Papà non lesse la fine della storia, non ci mise mente, non le diede importanza e il ranger, nel micromondo di papà, piccolo come quello di ognuno, morì senza pietà. Io però ho conquistato anche in capo a qualche disillusa speranza il gusto di raccontare a me stesso i miei teneri ricordi. E legare l'oggi e l'ieri, muratori grati al temporale, scrittori corsari, innamoramenti di un altro secolo e padri che cedono una sola volta al sentimento e mai più per tutta la giovinezza fa parte della stessa storia che io stesso, prima che scriverla, vivo ancora - grazie al destino - da protagonista.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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