Non c'è cosa più utile delle parole, utili di un'utilità che è bellezza e fatica, perché a usare quelle giuste è festa ma la scelta è complicata. Senza il culto che ho delle parole non avrei detto e scritto Ti amo mettendoci prima e dopo altre migliaia di vocali e consonanti a chi ho riconosciuto parte di me, a chi confonde, per quanto sono uguali, la sua anima con la mia. Così quando incontro qualcuno che sa usare le parole non come gusci vuoti ma per il suono che fanno - ognuna differente e sa metterle al posto giusto che è uno, uno solo e nessun altro - mi cresce il buonumore. Ho letto e apprezzato Se chiudo gli occhi, romanzo di Simona Sparaco, e poi ho conosciuto e presentato lei al pubblico della Bct, ieri mattina. Una cosa bella, per come è venuta. Un modo per parlare di narrativa senza pedanteria, alla mano, tra amici, con tutti quelli che c'erano. Simona ha una scrittura morbida ed esatta, suggerisce quando deve suggerire, racconta dispiegando la storia quando è più opportuno farlo, e costruisce un gioco col lettore di biforcazioni della strada, curve a gomito, dolci pendii e soste per recuperare le forze e guardarsi attorno, in cerca di laghi di memoria in cui immergersi.
Un libro di malintesi, teneri ricordi e rese dei conti che, come ogni buon romanzo, trae forza da uno spunto potente: una sintassi interrotta, sghemba, corre tra un padre e una figlia, finché non si ritrovano - lui ritrova lei - e insieme decidono, al netto della diffidenza reciproca, di non dar corda al rancore, di darsi un'ultima possibilità. Un buon libro non si racconta troppo, ma si legge con devozione, se ne scandagliano i fondali, si ingrandiscono i dettagli lontani, volutamente messi in controluce o mutilati perché chi legge abbia gusto e libertà a rifarli interi. Questo romanzo, a voler trovarne il nucleo, è un viaggio dentro altri viaggi: uno vero, per colline e montagne, a rintracciare le origini di tutto: la famiglia, l'amore, i legami spezzati delle persone. Un secondo - essenziale - da fare con gli occhi chiusi, perché solo così si scopre la vera natura delle cose. E l'ultimo - il più prezioso - alla ricerca di ciò che siamo veramente, che in fondo è ciò che siamo stati e poi abbiamo tradito, vestendo panni di scena. Tutti siamo stati, una volta almeno in un passato spesso remoto, ciò che vorremmo essere sempre. Averne conferma attraverso il libro della Sparaco è confortante e ci incoraggia a cercare la nostra compiutezza, non fermandoci a contemplare, persistente, l'abituale infelicità.
Un libro di malintesi, teneri ricordi e rese dei conti che, come ogni buon romanzo, trae forza da uno spunto potente: una sintassi interrotta, sghemba, corre tra un padre e una figlia, finché non si ritrovano - lui ritrova lei - e insieme decidono, al netto della diffidenza reciproca, di non dar corda al rancore, di darsi un'ultima possibilità. Un buon libro non si racconta troppo, ma si legge con devozione, se ne scandagliano i fondali, si ingrandiscono i dettagli lontani, volutamente messi in controluce o mutilati perché chi legge abbia gusto e libertà a rifarli interi. Questo romanzo, a voler trovarne il nucleo, è un viaggio dentro altri viaggi: uno vero, per colline e montagne, a rintracciare le origini di tutto: la famiglia, l'amore, i legami spezzati delle persone. Un secondo - essenziale - da fare con gli occhi chiusi, perché solo così si scopre la vera natura delle cose. E l'ultimo - il più prezioso - alla ricerca di ciò che siamo veramente, che in fondo è ciò che siamo stati e poi abbiamo tradito, vestendo panni di scena. Tutti siamo stati, una volta almeno in un passato spesso remoto, ciò che vorremmo essere sempre. Averne conferma attraverso il libro della Sparaco è confortante e ci incoraggia a cercare la nostra compiutezza, non fermandoci a contemplare, persistente, l'abituale infelicità.
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post