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Ballavamo solo i lenti

Io ricordo. E finché ricordo ho una tenerezza perpetua a cui attingere nei momenti di siccità. I sentimenti s'asciugano se non li pratichi e quando servono te li ritrovi morti. Ma i ricordi sono ondivaghi, arrivano quando gli pare, come parenti molesti che suonano appena hai apparecchiato. Al contrario dei parenti però, ai ricordi vuoi bene; anche a quelli trascurati. Così capita che i giorni del sole freddo di questo principio d'anno mi riportino a trent'anni fa, alle feste di compleanno pomeridiane, da chiudere come un coprifuoco entro le diciannove. Belle quelle che facevamo a primavera, quando la luce aveva un chiarore che non si spegneva subito ma era una specie di lampada che s'affiochi lenta fino a annerirti l'abbraccio con la ragazzina innamorata e impedire gli occhi dei compagni. Si usciva in terrazzo col pretesto di vedere se arrivava suo padre a prenderla, e ci si inteneriva lì come non è stato così spesso dopo, quando crescere ha smarrito di senso molta bellezza. Io che mi vergogno a ballare perfino da solo -  quando non mi vedrebbe nessuno -  ricordo che ho ballato canzoni compromettenti, lente e smielate: sembrava ci dovessimo stare tutta la vita dentro quella stanza, il tavolo addosso alla parete colmo di dolci e Fanta a ricordarci che avevamo quattordicianni. Era un tempo - e la mia vita anche dopo è spesso stata uguale - in cui non praticavo la sfrontatezza. Ogni passione era inespressa, ogni voglia taciuta. Oggi so che era bello così: essere ragazzi non è fare le esperienze tutte assieme ma dilatarle nel giusto tempo che occorre. Per questo non invidio gli scaltri adolescenti di oggi, pratici del mondo e orfani d'ingenuità. 
E i miei ricordi più cari li ho costruiti allora su tutto il manchevole -  sulle occasioni perse, i baci non dati, la parole a sproposito -  piuttosto che sulle vittorie, ché queste nella memoria non ristanno. Rievocare le sconfitte è un modo per apprezzarsi, per non sentirsi mai invincibile, per sapere che chi ti ama oggi ti ama perché tu hai fatto esattamente quel tipo di strada, perché sei diventato come sei per le musate che hai dato per terra, più che per i fatui giorni di gloria. Come non essere grati ai ricordi? Mi riportano la mia imperfezione, che è l'unico ingrediente necessario al suo contrario. Chi mi ama sa che il meglio di me l'ho lasciato su quella terrazza d'aprile, ad aspettare un padre che sarà stato più giovane di quanto sia io oggi, pregando il cielo che tardasse. Tutto quel che sono diventato dopo - dal momento in cui la macchina è arrivata e in un istante sono rimasto solo, senza neanche un bacio d'addio -  figlia dalla scoperta della crudeltà della vita. Ma anche così crudele, e cruenta e irragionevole, c'è chi l'ama e si aspetta che la mia sia sempre, oggi e all'avvenire, all'altezza dei ricordi che nutre. Questo è dunque quel che voglio praticare: la coerenza. Perchè probabilmente non c'è nulla di più sacro per onorare la bellezza perfetta che ho adesso.





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