Se dio decidesse di discendere nuovamente sulla terra, disciolto dal vincolo di dispensare a ciascuno il castigo o la ricompensa secondo le proprie colpe o i propri meriti, il santissimo preferirebbe una fugace comparsa su un format tv in diretta globale o una ierofania a reti unificate sul notiziario delle venti, con un codazzo di addetti stampa.
Invece, è nei panni di un tatuatore scaltro e corpulento che sceglie di incarnare il nume la fantasia “randomica” di Francesco Franceschini, autore de La quarta persona più importante, Verbavolant edizioni.
Segno dei tempi. Che sia comodo leggervi un’allegoria o più semplicemente un divertissement letterario e bizzarro, le ragioni sono da ricercare più nei dettagli e negli effetti che questo romanzo surreale e comico, a tratti sornione con le questioni spinose della teologia, produce sul lettore, prodigo di espedienti narrativi originali e stravaganti che si diramano copiosi come rivoli nel fiume della narrazione (come il papa groupie che si fa un piercing in lode al signore).
Mirka, è una quindicenne scafata e unico punto di vista scanzonato della vicenda, orfana in fuga che uno zio maldestro, Ludovico (un ragazzo “sui trentacinque, belloccio, svagato, coi suoi ragionamenti slegati come lacci di scarpe di un bambino”), ha rapito inverosimilmente per allontanarla dai nonni arcigni e tiranni, dopo che i genitori, esagerando nel loro sentimento reciproco, hanno pensato bene di compiere un gesto assoluto e straniante che li legasse indissolubilmente: suicidarsi entrambi.
Nella sua corsa rocambolesca, assillata dal movente oscuro della scelleratezza dei suoi familiari (“così che possa mettervi da parte, amarvi di nuovo o odiarvi ancora più forte a seconda delle risposte”) e inseguita sia dalla polizia che dai giornalisti, Mirka incapperà, tra furti di autobus abbandonati in doppia fila e irruzioni dentro studi televisivi kafkiani, in una umanità eccessiva e straripante di personaggi borderline, tutti indaffarati nei preparativi per l’accoglienza del Creatore, avidi di ricevere una volta per tutte la consolazione definitiva alle loro inquietudini.
Un ex professore paraplegico reinventatosi usuraio, un’avvenente e furba annunciatrice televisiva disposta a ogni intrallazzo, comparse avvezze nella pratica di elargire e consigliare strampalati ammonimenti o ammaestramenti a cui Mirka si sottopone con pazienza chirurgica e con la dedizione acerba di ogni adolescente, fino allo stesso dio, divinità vanesia e indifferente alle sorti dell’umanità (figura baudeleriana che ama fissare indolente l’umanità come si guarderebbe l’oblò di una lavatrice). Ma per quanto possano essere ragionevoli ed esaustive, le risposte possono lenire un dolore muto e impronunciabile come la perdita delle persone amate? In fondo, “dio dà solo risposte che ti dissuadono dal combattere”, ci suggerisce l’autore.
Alternando momenti di riflessione compunta ad altri di grottesca comicità, dialoghi surreali a scene di divertente slapstick, lo sguardo obliquo di Mirka lambisce i temi inestricabili della fragilità umana, l’egoismo e la dolcezza dell’ingenuità di fronte al dramma, la capacità di reagire o di lasciarsi andare alla corrente, il dissidio tra il destino e il libero arbitrio, la volontà di separarsi dal passato e il dovere di consegnarsi al futuro.
In un paese in cui la tradizione narrativa ha spesso le tinte uniche del dramma e del noir, che fatica a non prendersi sul serio, raccontare l’irragionevolezza della perdita e del lutto evadendo dai toni ansiogeni e senza cedere al moralismo ricattatorio, significa dimostrare un’insolenza agguerrita pari allo stile irriverente dell’autore.
Come in ogni narrazione picaresca, anche la blasfemia ha un chiaro intento purificatore, indice di un pensiero libero e ancora in allarme, capace di avvisarci della nostra insipienza che “nessuna perdita è paragonabile a quella della persona scelta”.
ALFREDO NICOTRA
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