Passa ai contenuti principali

Mia madre

Certe sere mia madre tornava dalla tabaccheria e io l'aspettavo in finestra. Era bello aspettarla, d'inverno e d'estate. D'inverno perché stare dentro casa a guardar fuori la notte gelata mi dava un'emozione da assediato; d'estate perché la Flaminia era luminosa, la gente vestiva leggera e rideva salutandosi e se mi staccavo per un attimo dalla finestra giocavo a indovinare se quella voce era la sua o no.
Leggevo tanto già allora, lei mi portava Tex e La Storia del West. Il dopocena allora prendeva una piega fantastica, solo in quei momenti ho desiderato che la mia vita non finisse mai e che fosse sempre come era. I sentimenti di quella stagione che a viverla sembrò interminabile e che ora è talmente lontana da parermi la vita di un altro mi ricompaiono adesso, come amici che fanno l'improvviso sulla porta di casa, dopo trent'anni di lontananza. Era un'epoca infelice, per lo più, eppure a guardarla ora fortunatissima. C'erano persone che mi amavano con poche parole e molti fatti. Poi a volte - con altre, che forse mi amavano di meno -  è successo il contrario. Persone che una dopo l'altra sono andate via senza che io abbia potuto salutarle come meritavano. Nessuno che si  ama si saluta mai davvero come merita, del resto.
Mia madre mi accudiva quando stavo male, e stavo spesso male: acetone, tonsilliti furibonde, qualche precoce mal di vivere. Mi curavo con le figurine dei calciatori, più che col paracetamolo; con le fantasie più innocenti proiettate dalla mia testa sul soffitto della camera, invece che col tè bollente. Ora non so quanto potrebbe costare, ma una settimana nei miei dieci anni un viaggio vorrei farcelo. Con la testa di adesso e dentro tutte le cose già avvenute ma col mio corpicino di allora. E gli altri dovrebbero essere esattamente come erano all'epoca, ignari che io sia tornato dall'avvenire a godermi quel pezzo accidentato di tempo. Se potessi scegliere il periodo, direi Natale. Così senza troppo languore potrei rivedere attorno a un tavolo tutti quelli che ho amato e poi ho smesso, perché se qualcuno se ne va, smetti di amarlo. La presenza è necessaria, per volere bene. E dopo tornerei a oggi. Non prima di aver detto a tutti, a mia madre per prima, tutto quello che avrei voluto dire ma per fanciullezza - orgoglio - ho sempre trascurato.
Cioé che con tutti loro, anime magnifiche, è stato il tempo più gonfio di tenerezza della mia vita.

Commenti

Post popolari in questo blog

Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...