Ieri ho parlato ancora una volta di Mirka, la ragazzina che sono diventato dentro al romanzo, e ho raccontato come non sia stato poi così difficile indossare le sue scarpe, ragionare e parlare come farebbe lei se fosse vera. La quarta persona è entrata in nuove case ed è sempre un'emozione pudica quando succede. Non vorrei mai essere invadente, ho insegnato a Mirka a chiedere permesso; lei - nonostante quel caratteraccio che si ritrova - ha tenuto a freno la lingua e risposto a tutte le domande, perfino quelle bislacche. Le han chiesto se non avesse un amorino. Ha detto - impassibile - che nelle pagine bianche tra un capitolo e l'altro, fuori campo, magari è successo pure. Ma immaginatevelo voi, ha aggiunto.
Dal canto mio - parlo del me fuori dal libro, che torna quarantasettenne e uomo - la vita inspiegabile piegata fino a settembre all'irrazionalità del dolore ha trovato il proprio senso in una nuova stagione di bellezza. Se mi stacco dalle cose che incidono il giorno a scalfitture e osservo tutto dall'alto, come il dio tatuatore dall'iperspazio, vedo un cerchio che si è chiuso e - di presso - un sentiero che s'è acceso fino a slargarsi in una strada maestra, che ora è esaltante percorrere. Il vuoto ha generato il pieno, persone si sono avvicendate e l'una è forse l'incoraggiatrice dell'altra, il motore, la scintilla. Viviamo insieme - lei ed io - come non avessimo mai fatto altro, a segmenti per ora ma come fosse una missione, come fossimo stati cresciuti solo a questo. Io davvero credo che se è un caso, il caso è Dio, stavolta sì con la maiuscola.
La scrittura ha prodotto spesso rivoluzioni, nella mia vita. Mi ha fatto incontrare chi mi ha riconosciuto uguale a lei e io - dopo il tempo necessario ai maschi tardi per ricambiare tanta magnificenza - ho assecondato il corso naturale - l'unico legittimo - delle cose. Come al seguito di una scrittura più acerba - ancorché il peso delle due cose sia imparagonabile - quindici anni fa entrai in radio, senza uscirne mai più. Negli anni, grazie alla parole che ho scritto, ho praticato la violenza del me tenace sul me vergognoso, perché poi mi è toccato parlarne in pubblico - e parlare delle parole è già un'iperbole, una ridondanza - e costruirmi la faccia giusta per non aver timore di farlo. Ora è un mestiere senza stipendio, ma gratificante. Lo vedo dall'attenzione della gente, che se non sei sul pezzo, sempre, se ne accorge, e ti toglie ogni gratitudine.
Alla fine, il destino di uno scrittore è quello di essere mestamente felice. A meno che non abbia ciò che ho io da un po': l'indescrivibile sensazione di essere amato in modo imbarazzante. Allora di mesto non c'è più niente e ogni giorno feriale - vi giuro - è per sempre una festa.
Dal canto mio - parlo del me fuori dal libro, che torna quarantasettenne e uomo - la vita inspiegabile piegata fino a settembre all'irrazionalità del dolore ha trovato il proprio senso in una nuova stagione di bellezza. Se mi stacco dalle cose che incidono il giorno a scalfitture e osservo tutto dall'alto, come il dio tatuatore dall'iperspazio, vedo un cerchio che si è chiuso e - di presso - un sentiero che s'è acceso fino a slargarsi in una strada maestra, che ora è esaltante percorrere. Il vuoto ha generato il pieno, persone si sono avvicendate e l'una è forse l'incoraggiatrice dell'altra, il motore, la scintilla. Viviamo insieme - lei ed io - come non avessimo mai fatto altro, a segmenti per ora ma come fosse una missione, come fossimo stati cresciuti solo a questo. Io davvero credo che se è un caso, il caso è Dio, stavolta sì con la maiuscola.
La scrittura ha prodotto spesso rivoluzioni, nella mia vita. Mi ha fatto incontrare chi mi ha riconosciuto uguale a lei e io - dopo il tempo necessario ai maschi tardi per ricambiare tanta magnificenza - ho assecondato il corso naturale - l'unico legittimo - delle cose. Come al seguito di una scrittura più acerba - ancorché il peso delle due cose sia imparagonabile - quindici anni fa entrai in radio, senza uscirne mai più. Negli anni, grazie alla parole che ho scritto, ho praticato la violenza del me tenace sul me vergognoso, perché poi mi è toccato parlarne in pubblico - e parlare delle parole è già un'iperbole, una ridondanza - e costruirmi la faccia giusta per non aver timore di farlo. Ora è un mestiere senza stipendio, ma gratificante. Lo vedo dall'attenzione della gente, che se non sei sul pezzo, sempre, se ne accorge, e ti toglie ogni gratitudine.
Alla fine, il destino di uno scrittore è quello di essere mestamente felice. A meno che non abbia ciò che ho io da un po': l'indescrivibile sensazione di essere amato in modo imbarazzante. Allora di mesto non c'è più niente e ogni giorno feriale - vi giuro - è per sempre una festa.
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