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La bambina che voleva toccare le stelle

A Mirka piaceva guardare le stelle. Sul terrazzo - quando i suoi dormivano - si avvolgeva in un plaid dalla testa ai piedi e dentro quel rifugio sicuro come una grotta osservava il cielo annottato. Aspettava le stagioni fredde perché attorno ci fosse silenzio e il peso dell'universo le desse il brivido dell'assediata. Sperava che l'anno dopo avrebbe potuto toccarle ma l'anno dopo le stelle erano sempre lontane, benché lei fosse cresciuta. Ne immaginava la consistenza come quella di certe saponette che le donne cercano nei cassetti quando han voglia di far aspettare gli spasimanti, o come quella della pasta modellabile in cui affondava le dita. Non sapeva se le stelle fossero dure o molli, l'aveva chiesto a suo padre, lui aveva risposto Alcune sì, certe altre no e poi si era ammutolito come suo solito. Le stelle le piacevano, ma non così tanto se non fosse riuscita a toccarle. Nella sua classifica delle cose da toccare erano scese al terzo, poi al settimo, poi al quattordicesimo posto. Sapeva l'effetto sulle dita delle cose toccate: il casco ronzante per la messa in piega di sua madre, il pacchetto di sigarette morbido di suo padre, la panna del latte bollente salita in superficie, la busta gonfia - non ancora aperta - con dentro la fattura del gas. Le stelle no, non ne aveva esperienza, e venne il disamore.
Aveva tre anni quando si liberò del desiderio, e le stelle scomparvero dalla sua classifica. Sperimentò così l'indifferenza per le cose amate che non si possono possedere. A quindici anni suo padre e sua madre le squarciarono il cuore con un colpo di mannaia eppure lei rimase viva. Pensò che fosse una cosa contro natura. Visse contro natura in effetti per buona parte della giovinezza, facendo cose per cui non aveva passione. Incontrò dio e lui le tatuò un papavero su una caviglia; gli chiese se si commuoveva quando i suoi si abbracciavano e lui disse No, non mi sembra. Finì in un imbuto dalle pareti bianche come le celle di ospedale: ogni giorno - impercettibilmente - la vita le si stringeva addosso un po' di più, come panni di ragazzino che un adulto si ostini scriteriatamente a mettere. A vent'anni si sposò con un uomo troppo magro, né meglio né peggio di tanti. Partorì un figlio dall'indole perversa, poi una figlia che le ricordava sua madre. Avrebbe voluto ucciderla, la tentazione l'ebbe. Lavorò in una mensa universitaria, per un po'. La assaliva, di tanto in tanto, il sospetto che la sua vita non avesse alcun motivo plausibile. Se non fosse mai esistita sarebbe stato uguale, per quelli che avevan giurato di amarla e per quelli per cui - non avendola mai conosciuta - era come  mai nata.
A trent'anni era ancora sposata allo stesso uomo, senza capire cosa la spingesse a tanta ostinazione. A quaranta fece la prima cosa davvero desiderata della sua vita.
Tornò nella vecchia casa dei suoi. Ludovico - che abitava là vicino -  da vecchio si era trasferito in Germania, a bearsi di un amore che credeva solo suo e che invece alla fine visse al plurale, ma col rimpianto di aver perso tempo a raccontarlo. Mirka aveva finalmente messo in vendita la casa ma non la voleva nessuno: intuivano troppo dolore e si ritraevano, come chi corteggia solo per un po' una bellissima donna triste. Negli anni attorno alla casa era cresciuto un quartiere storto, che faceva da coda arruffolata alla città mezza lontana. Entrò senza sapere bene perché ne avesse voglia. E perché ne avesse voglia proprio in quel momento. In terrazzo trovò le schegge di una casuale felicità: le videocassette di suo padre per terra, come buttate per rabbia e in attesa di essere raccolte. Si riconobbe grata al dolore. Guardò in basso, nel buio, oltre la ringhiera cui la ruggine aveva sporcato le sbarre. Vide un ragazzino che la fissava e le parve che sorridesse. Gli urlò: Chi sei? Vai da tua madre! Non ce l'hai una casa?, mentre quello continuava a guardarla.
Scese, si avvicinò al monello. Sul marciapiede, annodate, c'erano le luminarie di plastica di Natale: domattina qualcuno le avrebbe issate tra i palazzi. Si accorse che il bambino non sorrideva davvero ma aveva in faccia - tracciato da un lato all'altro della bocca, arcuato fino agli zigomi - un sorriso nero. Me l'ha fatto mio padre con la cenere, perché sono triste, disse, e scappò via. Lei lo lasciò andare, mentre pensava che l'allegria è in effetti solo un disegno. Chinò i suoi quarant'anni sulle luci spente appoggiate al marciapiede. Non passava nessuno. Somigliavano alle stelle di quando era piccola. Le tornò la voglia di toccarle, ora poteva farlo, erano lì. Alle dita sapevano di plastica dura, gocce di candele elettriche che domani sarebbero state di nuovo troppo in alto per chiunque. Ripensò alla sua classifica, concluse che potevano pur stare tra le prime tre o quattro cose belle che aveva mai toccato, dopo tutto. Stelle di plastica, basta sapersi contentare - disse ragionevolmente.
Poi si alzò e senza guardare più la vecchia casa tornò dall'uomo magro, dal figlio perverso e dalla figlia che le ricordava sua madre senza domandarsi se davvero ne avesse convintamente voglia.











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