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Fotografare il passato

Per andare da un quartiere di pozzi, macellerie e scale a uno di giardini, Narni ha tante strade diverse. Tagliandola da sud a nord, come una formica che risale il corpo di un bambino, puoi passare costeggiando la Flaminia, ed è la via più comoda e breve, ma vedi solo le facciate delle case, ti perdi il dentro: i cortili arrampicati, e il dietro: le schiene dei palazzi scorticati d'intonaco. Meglio è scegliere - se hai tempo, viaggiatore - le linee contorte dei vicoli che tornano su se stessi due, tre volte, e saliscendono estenuanti prima di portarti a destinazione. Così giri a piedi - che è sempre la cilindrata migliore - e ti senti dar del turista da un concittadino. M'è capitato ieri. Non è un insulto, ci mancherebbe, ma turista a Narni io proprio no. Poi mi ha riconosciuto, quell'amico, e mi ha chiesto gli anni, li ho confessati, ha aggiunto "Sul serio? Te ne davo sette o otto di meno". Giuro, è andata così. Infine il discorso ha preso la piega triste che immaginate, ho sorriso mesto, tagliato corto: "Vado a San Girolamo a fotografare il passato", ho ammesso.
Fotografare il passato uno pensa che sia da sciroccati. Invece ce la si fa. Perché il passato non muore mai del tutto ma lascia tracce attorno, a saperle cercare. Nei giardini addosso al castello scempiato da amministrazioni indecenti ci stanno ancora, soffocati dall'erba, i cordoli di cemento su cui posavano i nostri giochi di ragazzini degli anni Settanta: il ponte di legno e il tunnel claustrofobico. Fa specie pensare che quelle rovine son state lì immobili mentre uno cresceva: mentre s'innamorava, mentre si dichiarava, mentre faceva l'amore nel modo più struggente che si possa immaginare, e sua moglie lo baciava, e gli porgeva il seno da succhiare, e lo estasiava dicendo "Insieme, amore mio, è più bello insieme", e mentre il dentista gli toglieva un granuloma, o il giorno dello scudetto, della cistifellea, o quello della furibonda lite muta, o mentre l'oncologo vile non confessava la verità, e mentre si sperava, pregava, imprecava e si moriva con e senza morte. Quei resti stavano là, sotto il sole a scrocchio d'agosto e il nulla della notte invernale, appena abitata da anime cercatrici, nella nebbia di confine tra questa vita e il niente. O il tutto, chissà. Lì ci si son sposati i miei. A San Girolamo, dico: 1965, l'anno venturo fa cinquant'anni. E laggiù ci andai vestito da principe, un carnevale; e addosso a un albero ci lessi Dylan Dog invece di preparare Storia Contemporanea. E infatti presi 26.
Poi ho fatto il viaggio al contrario, ieri, lasciando per strada tutte le voci dell'infanzia, che hanno solo il valore più grande e nessun prezzo. Se un dio mi dicesse "Torna un mese a quell'epoca con la testa di ora" non gli darei del matto ma chiederei cosa vuole in cambio.  E tutto il tempo, tra il percorso di andata e il ritorno, sono stato con te. Ti ho parlato tanto, ho pianto quando non passava nessuno, con su gli occhiali da sole. Ti ho giurato "Ti amo pazzamente", perché me lo ripetevi sempre tu, ti piaceva l'avverbio. Ho fotografato - prima di tornare del tutto -  l'ospedale e la Rocca dalle maglie dello stadio. All'ospedale è nata nostra figlia; alla Rocca andavamo a far l'amore con la macchina in pendenza che se si sfrenava ci ammazzavamo; allo stadio ti trascinavo a vedere la partita. All'altezza del monumento ai caduti mi si sono infine svelati atri di palazzi che non avevo mai visto, in tanti anni. Spalancati come tesori chiusi da sempre da portoni massicci, chissà perché ieri finalmente liberi. Dentro, la frescura delle penombre, muffa, mosaici da quattro lire, cariatidi sbreccate.
Un po' come la nostra vita - ho pensato - che a guardarla sembra uno scrigno magnifico e quando l'apri trovi che il peso, la consistenza, erano tutte pietre di fiume.








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