Del '78 - prima di quell'anno non ho memoria di partite di calcio in tv: non mi attiravano, ero troppo piccolo - ricordo il gol di Zaccarelli alla Francia, il gesto dell'ombrello di mio padre a Platini, l'Argentina che vince in casa sua grazie a una combine nel girone eliminatorio: era l'epoca orrenda dei Colonnelli e dei desaparecidos.
I Mondiali di calcio sono un buon sistema per misurare il tempo, una colossale clessidra la cui sabbia finisce solo ogni 4 anni, e ogni 4 anni tu la capovolgi, e accumuli passato da rigurgitare poi. Nel '78 ritrovo - a sfogliarlo - anche Aldo Moro e papa Luciani, e la vacanza coi miei in Sardegna, con l'Alfetta: i misteri d'Italia, di cui avevo appena una vaga idea, e la giovinezza normale di mio padre e mia madre. A me la normalità - gioie e dolori borghesi, sopportabili - non sarebbe toccata; al suo posto, il benessere più aristocratico e poi il dolore più atrocemente proletario.
Dell'82 spagnolo ricordo il calcio imparato sul divano insieme agli amici di papà, le battute per sdrammatizzare la tensione crescente, fino al trionfo. Ero al Ginnasio, appena guarito da una micidiale cotta per una ragazzina che si chiamava Silvia: lei arrivava mezz'ora prima per stare un po' insieme a me nonostante abitasse davanti alla scuola. Poi la maturità, nell'86, e c'eri già tu: il fiasco dell'Italia di Bearzot in Messico, coi campioni di Spagna ormai scoppiati. La mattina degli orali non volevo presentarmi. Mi convincesti tu, come al solito fu la scelta giusta. Quando ho fatto di testa mia, ho spesso sbagliato, invece.
Preparavamo Glottologia e Storia del Cristianesimo nel '90, quando un carneade di nome Schillaci divenne per un mese re d'Italia, una specie di Odoacre moderno, fino all'incauta uscita di Zenga su Caniggia e alla morte dell'illusione. La naja tardiva mi privò dei quarti della Nazionale di Sacchi in America, nel '94. In finale la nostra grande speranza era un genio di nome Roberto Baggio. Portammo i brasiliani ai rigori: furono più precisi e fortunati. Un mese dopo mi congedai e cominciò un periodo buio, di timori, ripensamenti, vuoto. Mi sentivo lontanto da te, non so per quale motivo. So che tu lo capisti ma come sempre facesti la scelta migliore: aspettare che tornassi in me e scherzarci su. Eri il cemento armato, io uno a cui mancò per qualche mese la terra sotto i piedi.
Nel '98 eravamo sposati e compiuti. Altri rigori, contro la Francia padrona di casa: andammo fuori di nuovo, senza meritarlo. Itieli era la nostra fortezza, ci credevamo inespugnabili e lo siamo stati, per tanto tempo. Ma anche l'impero più luminoso alla fine crolla.
Un arbitro improponibile ci cancellò dal torneo del 2002, in Corea e Giappone. L'estate più torrida che ricordi, le Torri Gemelle ancora a inquietarci d'orrore, come un'eco maligna. Vivevamo al quarto piano di un palazzo senza ascensore: 72 scale. Guardai le partite da solo, in cucina, dentro un televisore 14 pollici, sudando come giocassi anch'io mentre eri a estenuanti consigli di classe e Susanna dormiva in culla. Il primo vicino di pianerottolo era un pusher visitato ogni settimana dalla narcotici. Se la svignò un pomeriggio offrendomi il suo acquario come regalo d'addio. Per fortuna non accettai: sospetto ci nascondesse ovuli di cocaina. Poi arrivò un altro vicino, ancora peggio di quello. Un greco che storpiava Jimi Hendrix con una Fender miagolante e dava festini di scioperati studentelli fino alle tre del mattino.
La cistifellea mi presentò il conto nel 2006, le coliche mi si mangiavano vivo. Eravamo a casa nuova, niente più scale infinite. A Berlino, alla resa dei conti, Grosso fregò Barthez e bevemmo una bottiglia di vino intera, l'unica tutta in una notte della nostra vita. Una settimana dopo mi tolsero tre calcoli grossi come sassolini lunari. Fu l'ultimo mondiale sereno, non credo sia un caso che lo vincemmo. In Sudafrica, 4 anni dopo - 4 anni fa - avevi già perso i capelli: li raccoglievo dal pavimento, pregando e imprecando. Non lo spirito combattivo, che trasmettevi anche a me. Il Mondiale sembrava lo giocassimo con la Nazionale cantanti - fuori al girone eliminatorio, contro tre scartine - e la nostra vita improvvisamente era virata in nero per una tumefazione sulla spalla.
Questo è quanto, in soldoni.
Il resto non è ancora storia, perché deve accadere. Stasera comincia il mio decimo mondiale da spettatore. Il terzo senza te, dopo i primi due vissuti che ancora non ti conoscevo. Dicono che chi ha amato ha vinto per sempre. Dicono che i campioni del mondo in carica, in realtà, siamo noi due: nessuno ci ha ancora spodestati.
Dicono tante sciocchezze, taluni. L'unica certezza, tatuata a fuoco sulla mia pelle, è che mi manchi in maniera esagerata. Qualcuno, credendosi onnipotente, deve aver truccato la partita. Come i colonnelli di Buenos Aires ai tempi della nostra inconsapevole infanzia innocente.
I Mondiali di calcio sono un buon sistema per misurare il tempo, una colossale clessidra la cui sabbia finisce solo ogni 4 anni, e ogni 4 anni tu la capovolgi, e accumuli passato da rigurgitare poi. Nel '78 ritrovo - a sfogliarlo - anche Aldo Moro e papa Luciani, e la vacanza coi miei in Sardegna, con l'Alfetta: i misteri d'Italia, di cui avevo appena una vaga idea, e la giovinezza normale di mio padre e mia madre. A me la normalità - gioie e dolori borghesi, sopportabili - non sarebbe toccata; al suo posto, il benessere più aristocratico e poi il dolore più atrocemente proletario.
Dell'82 spagnolo ricordo il calcio imparato sul divano insieme agli amici di papà, le battute per sdrammatizzare la tensione crescente, fino al trionfo. Ero al Ginnasio, appena guarito da una micidiale cotta per una ragazzina che si chiamava Silvia: lei arrivava mezz'ora prima per stare un po' insieme a me nonostante abitasse davanti alla scuola. Poi la maturità, nell'86, e c'eri già tu: il fiasco dell'Italia di Bearzot in Messico, coi campioni di Spagna ormai scoppiati. La mattina degli orali non volevo presentarmi. Mi convincesti tu, come al solito fu la scelta giusta. Quando ho fatto di testa mia, ho spesso sbagliato, invece.
Preparavamo Glottologia e Storia del Cristianesimo nel '90, quando un carneade di nome Schillaci divenne per un mese re d'Italia, una specie di Odoacre moderno, fino all'incauta uscita di Zenga su Caniggia e alla morte dell'illusione. La naja tardiva mi privò dei quarti della Nazionale di Sacchi in America, nel '94. In finale la nostra grande speranza era un genio di nome Roberto Baggio. Portammo i brasiliani ai rigori: furono più precisi e fortunati. Un mese dopo mi congedai e cominciò un periodo buio, di timori, ripensamenti, vuoto. Mi sentivo lontanto da te, non so per quale motivo. So che tu lo capisti ma come sempre facesti la scelta migliore: aspettare che tornassi in me e scherzarci su. Eri il cemento armato, io uno a cui mancò per qualche mese la terra sotto i piedi.
Nel '98 eravamo sposati e compiuti. Altri rigori, contro la Francia padrona di casa: andammo fuori di nuovo, senza meritarlo. Itieli era la nostra fortezza, ci credevamo inespugnabili e lo siamo stati, per tanto tempo. Ma anche l'impero più luminoso alla fine crolla.
Un arbitro improponibile ci cancellò dal torneo del 2002, in Corea e Giappone. L'estate più torrida che ricordi, le Torri Gemelle ancora a inquietarci d'orrore, come un'eco maligna. Vivevamo al quarto piano di un palazzo senza ascensore: 72 scale. Guardai le partite da solo, in cucina, dentro un televisore 14 pollici, sudando come giocassi anch'io mentre eri a estenuanti consigli di classe e Susanna dormiva in culla. Il primo vicino di pianerottolo era un pusher visitato ogni settimana dalla narcotici. Se la svignò un pomeriggio offrendomi il suo acquario come regalo d'addio. Per fortuna non accettai: sospetto ci nascondesse ovuli di cocaina. Poi arrivò un altro vicino, ancora peggio di quello. Un greco che storpiava Jimi Hendrix con una Fender miagolante e dava festini di scioperati studentelli fino alle tre del mattino.
La cistifellea mi presentò il conto nel 2006, le coliche mi si mangiavano vivo. Eravamo a casa nuova, niente più scale infinite. A Berlino, alla resa dei conti, Grosso fregò Barthez e bevemmo una bottiglia di vino intera, l'unica tutta in una notte della nostra vita. Una settimana dopo mi tolsero tre calcoli grossi come sassolini lunari. Fu l'ultimo mondiale sereno, non credo sia un caso che lo vincemmo. In Sudafrica, 4 anni dopo - 4 anni fa - avevi già perso i capelli: li raccoglievo dal pavimento, pregando e imprecando. Non lo spirito combattivo, che trasmettevi anche a me. Il Mondiale sembrava lo giocassimo con la Nazionale cantanti - fuori al girone eliminatorio, contro tre scartine - e la nostra vita improvvisamente era virata in nero per una tumefazione sulla spalla.
Questo è quanto, in soldoni.
Il resto non è ancora storia, perché deve accadere. Stasera comincia il mio decimo mondiale da spettatore. Il terzo senza te, dopo i primi due vissuti che ancora non ti conoscevo. Dicono che chi ha amato ha vinto per sempre. Dicono che i campioni del mondo in carica, in realtà, siamo noi due: nessuno ci ha ancora spodestati.
Dicono tante sciocchezze, taluni. L'unica certezza, tatuata a fuoco sulla mia pelle, è che mi manchi in maniera esagerata. Qualcuno, credendosi onnipotente, deve aver truccato la partita. Come i colonnelli di Buenos Aires ai tempi della nostra inconsapevole infanzia innocente.
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