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Specchio delle mie trame

Gli specchi sono tutti uguali eppure ogni specchio mi restituisce un'immagine diversa. C'è quello del bagno, dove appaio sempre un po' più giovane e fico; quello del baracchino per le foto tessera, dove mi vedo intero e con addosso tutti gli anni fino all'ultimo; quello accanto al bancomat, dove sono spettinato e in forma; quello della radio, dove torno stanco, preoccupato e spento. Sono io che a distanza di dieci minuti cambio posa o son solo illusioni ottiche? Magari per via della luce, del sorriso se c'è o non c'è, della fretta che ho. Tutti perdiamo tempo a specchiarci, anche i brutti; più questi ultimi, anzi, alla ricerca disperata di un particolare che dia loro fascino, nello scempio.
L'ultima volta che mi sono specchiato intero, l'ultima volta che mi sono soffermato a guardarmi dalla fronte agli alluci, sono stato costretto a farlo. Ero nudo, infreddolito, steso su un tavolo operatorio, circondato da infermieri e medici. Sopra di me un enorme disco rotondo con quattordici luci triangolari, dieci sul perimetro e quattro dentro il cerchio. Tra una luce e l'altra la superficie metallica rifletteva tanti piccoli Francesco interi. Ho provato vergogna, senza niente addosso, mentre due infermiere armeggiavano lì accanto con tubicini e ventose, mi prendevano la pressione, collegavano il mio cuore alla macchina dell'ECG. Poi una mi ha detto "Si appoggi sul fianco sinistro, si metta in posizione fetale e si guardi l'ombelico". Un'anestesista mi ha fatto un'iniezione sulla schiena e in capo a pochi minuti è come se le gambe me le avessero tagliate. La parte superiore del mio corpo era ancora inchiodata a quel tavolo; dal bacino in giù era come se le mie membra fossero diventate aria: il cervello mi diceva che erano ancora al loro posto ma non avevo alcun potere su di esse. Lì per lì un po' di panico ti viene. Con la mano sinistra ho toccato la mia gamba e mi sembrava una coperta di lana, e ho pensato "Chi diavolo l'ha messa qui?". Ho ripreso a guardarmi nel disco di metallo e mi son scoperto vulnerabile. Potevano farmi qualunque cosa, non avrei potuto oppormi. Soprattutto, ho pensato a come mi vedessero tutte quelle persone intorno, e se come mi vedevano loro era come mi vedevo io. Ho immaginato che avrei invitato volentieri l'infermiera più carina a cena, in condizioni normali. Ma lei mi aveva visto nudo. E non solo in senso letterale. Mi aveva visto indifeso, senza atteggiamenti di alcun tipo, senza maschere. Aveva senz'altro letto quel lampo nei miei occhi e lo aveva interpretato come paura, imbarazzo. Un'estranea che scopre i tuoi sentimenti più nascosti al primo appuntamento. E chissà quante altre facce di me sarò stato per gli altri, i setto o otto, che mi  hanno alla fine tagliato e ricucito, e trasportato, e confortato, e  rimesso a letto, in camera, come un vecchio rottame. Un'altra infermiera mi ha proposto "Se le serve, le porto il pappagallo". A tutto c'è un limite. Me la son tenuta finché ho potuto, poi, con i flaconi di antidolorifico attaccatti all'ago e l'ago nel braccio, barcollando, sono andato a far pipì sulle mie gambe, tornate a obbedirmi.
Ti dà da pensare, tutta 'sta cosa, a me almeno ha fatto questo effetto.
Complice anche il tempo noioso e dolente passato in ospedale. Pensare a quanto poco siam disposti a mostrare di noi, dei noi veri, dico, in certe circostanze e quanto poco possiamo nasconderci in altre. La nostra abitudine a mascherarci si sgretola nella necessità. Forse dovremmo dare meno importanza agli specchi. Tanto come ci vediamo noi non è mai come ci vedono gli altri. E tutte le nostre trame d'amore sarebbero più realizzabili se ci presentassimo nudi già al primo appuntamento.






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