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Ho una macchina del tempo in cucina

Gli odori si ricordano come le facce e le voci e ogni volta che capita sembra di averli sotto il naso. E poi si anticipano, vengono prima di ciò che li emana, basta guardarlo da lontano, specie se sono odori che rimandano a epoche di nostalgia costruita ad arte nella testa. Il tempo non esiste, è la cosa più feroce che inventiamo. Dentro questa truffa colossale mettiamo di tutto, come dentro un cesto bucato. Non è mai pieno, il tempo, di malinconie, non è mai sazio. Ci uccide per sfinimento.
A casa mia, a Narni, una delle dispense, in cucina, sta dietro la porta, neanche la trovi se non lo sai, appena sopra al termosifone. Un angolo che è una specie di confessionale laico. D'inverno poggiavo una sedia lì accanto e, avvolto in una coperta, studiavo Kierkegaard e traducevo Tacito, i piedi al caldo. Dentro, mia madre ci teneva e tiene spezie e barattoli di conserva e miele, la camomilla Bonomelli, bustine di té per quando avevo l'acetone e vomitavo l'anima, il bicarbonato in granuli, le salsicce secche, le olive nere condite con aglio e scorze d'arancia. Ad aprirla, viene fuori un odore misto, puntuto, vagamente disgustoso e sufficientemente antico per essere familiare: l'odore della mia infanzia, di quegli anni Settanta dove ho avuto la sorte di essere innocente, chissà se per volontà inindagabile o giro fortuito di giostra.
Più tardi, universitario,  facevo le ore piccole a fissare in testa quanto serviva per competere agli esami con te, che eri una fuoriclasse, ma era una partita persa in partenza. Per farti distrarre qualche volta ti tentavo: ti proponevo "Studiamo insieme" e finivamo ad amoreggiare sulla sedia, lì accanto al termosifone, a ridere come matti risate soffocate, attenti ai passi che potevano arrivare da qualche stanza della casa smisurata. Una settimana dopo, all'esame, ne sapevi comunque più di me: neanche corteggiandoti ti battevo. E la dispensa era lì, coi suoi aromi orientali e caserecci a mescolarsi insieme, come l'alito di uno che è stato in trattoria a Trastevere e poi a un ristorante cinese; e alle sette di sera, d'inverno, lì da presso aspettavo mia madre che tornava dalla tabaccheria con Tex Willer, e allora tutto s'attutiva, gli affanni, la paura di non saper dire a mio padre Sono un uomo, trattami da uomo, e a leggere mi perdevo in un altro mondo, quello finto che avrei voluto esistesse al posto di quello vero.
Non so perché proprio quella scansia, tra le tante, m'innamora. La calamita dello sportello è più tenace delle altre, segno che è stata aperta di meno. Se venite a casa mia, un giorno, vi faccio provare. Ci vuol forza. Su quello sportello ci sono tante impronte digitali di chi ho amato: le tue, naturalmente, che sono anche su di me, ovunque, incancellabili. E poi le dita di zio Gastone, ottima forchetta, che spizzicava i carciofini sott'olio alle cinque di sera; di zia Bruna, che cieca come una talpa riconosceva al tatto la farina ma confondeva zucchero e sale e mangiavamo maccheroni dolci e torta di mele salata; di nonno Gino, che in barba al suo diabete cercava una scheggia di torrone sopravvissuta alle feste. Quella dispensa è una bocca quadrata. Potesse parlare, racconterebbe storie di golosi, magnifiche e sentimentali. Anche così, senza parole, ad aprirla si entra nella macchina del tempo che  - mentre eravamo distratti -  è scappato via per sempre. 






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