Avevo dieci anni quando scoprii il linguaggio artistico degli adulti. Prima che me lo insegnasse il cinema, prima dei romanzi americani. Era giugno, mattina: scuola finita. Salii all'edicola arrampicata di piazza Garibaldi, issata come un gabbiotto medievale a difesa di un valico, a un passo dall'arco del duomo, nel cuore della mia Narni. L'edicolante era un omino tondo che spariva tra i giornali. Per prenderne uno, te, cliente, dovevi allungarti sopra un mare di riviste e alzarti sulla punta dei piedi. Per noi ragazzini era impossibile. Per questo i fumetti il giornalaio li metteva in basso, a portata di gnomo.
Quella mattina un trapper barbuto, dall'aria cordiale, con un fucile lunghissimo in mano, su un cavallo che sembrava docile, mi osservava dalla copertina di una nuova collana. Si chiamava Ken Parker. Capitò come per i grandi amori: di primo acchito non li riconosci, ci vuole un po' di tempo per capire che ti saranno indispensabili tutta la vita, che ti accompagneranno sempre, qualunque strada tu percorra. Decisi di prenderlo: 350 lire. Mi attirò proprio quella copertina mai vista: lunga, orizzontale, che cominciava davanti e finiva dietro, nella quarta. Portai Ken in tabaccheria, da mio padre. Lui mi guardava storto qualunque cosa comprassi, non per la cosa in sé ma per i soldi spesi. Mi misi sulla sedia di paglia in fondo, mentre clienti andavano e venivano. Cominciai a leggere. Non era Tex, non era Il Piccolo Ranger. Era un'altra cosa, una cosa che sconvolse i miei pochi anni, a cui non fui capace lì per lì di dare un nome. Capii che era più vero di qualunque storia avessi mai letto o guardato. Era violento, brutale, adulto. Come i film di Peckinpah, di Leone, che avrei scoperto poi. Una donna indiana torturata - forse stuprata e lasciata a morire nella neve - mi entrò dentro e da allora non è più andata via. Una cosa tipo Soldato blu, che era più antico ma che io vidi dopo. Lo mollai lì, non presi il secondo numero. Ero scosso. I morti sembravano veri, dentro Ken Parker, forse lo erano. Non come in Tex. E sia chiaro: ho amato e amo Tex da una vita.
Ma Ken fu una folgorazione. Ne ebbi paura. Credo che mi spaventò la prospettiva che potesse farmi crescere troppo in fretta, strapparmi dalla finzione della fanciullezza, dove tutto sembra avere una logica, dove per ogni accidente c'è un conforto. Mi rituffai nei fumetti rassicuranti. Ma ormai avevo visto il varco - come una specie di piccolo Montale - avevo capito che un altro modo di raccontare era possibile. Che il west di Ken era solo un pretesto per parlare d'altro, di tutto. La vita, la giustizia, la tolleranza. La pace, il rispetto delle minoranze, delle diversità. L'uguaglianza. Rimase dentro di me la voglia di conoscere altre storie di quel montanaro quasi analfabeta che col tempo si scoprirà - come me - grande lettore di romanzi. E qualche anno dopo ruppi il tabù. Comprai il numero 38: Il poeta. Rimasi incatenato alle pagine, fino a Fine dell'episodio. Feci in modo che capitasse in mano a mio padre, lo lesse. Lo spiavo dalla stanza accanto mentre sfogliava le pagine. Alla fine, con noncuranza, parlando d'altro, forse di calcio, disse qualcosa come Bello questo, e indicò l'albo sul tavolo. Era quel che aspettavo, la sua approvazione, il riconoscimento dei miei gusti, perché io avevo portato a casa quel capolavoro di disegni e parole.
Non smisi più di comprarlo. Recuperai gli arretrati. Ho tutta la prima serie originale: 59 numeri. Imbustati, tenuti come una reliquia.
Poi sono passati, come un'orda di cavallette, 37 anni. Di grandi gioie e immani dolori. Anche Alessandra scoprì Ken, e amò più di tutte Casa dolce casa, Adah, I pionieri, Sciopero. Storie più belle, in forma di fumetto, non ne conosco. Poesia, violenza, vita. C'è tutto.
Infine, stamattina. Un'epifania. In edicola, lo stesso amico di carta di una vita fa mi guardava come ai tempi belli. Una ristampa prestigiosa. Definitiva, la definiscono gli autori, Ivo e Giancarlo. E allora ti ho portato a casa con me, Ken, un'altra volta. E ti ho letto lentamente, e sei come ti ricordavo: eccezionale. Sei sempre stato presente in questi 37 anni. Qualche volta in primo piano, altre sullo sfondo. Mi hai educato il gusto per la narrazione piena, densa, corale, senza sconti, senza moralismi. Mi hai insegnato a riconoscere le ingiustizie, a combatterle, per quanto in mio potere. Mi hai fatto capire che per certe persone è giusto provare amore, per altre indifferenza e per altre ancora disgusto.
Oggi la collezione ricomincia, la storia ricomincia. Perché non finisce mai niente che sia necessario e che abbiamo amato come un'istigazione a crescere.
Quella mattina un trapper barbuto, dall'aria cordiale, con un fucile lunghissimo in mano, su un cavallo che sembrava docile, mi osservava dalla copertina di una nuova collana. Si chiamava Ken Parker. Capitò come per i grandi amori: di primo acchito non li riconosci, ci vuole un po' di tempo per capire che ti saranno indispensabili tutta la vita, che ti accompagneranno sempre, qualunque strada tu percorra. Decisi di prenderlo: 350 lire. Mi attirò proprio quella copertina mai vista: lunga, orizzontale, che cominciava davanti e finiva dietro, nella quarta. Portai Ken in tabaccheria, da mio padre. Lui mi guardava storto qualunque cosa comprassi, non per la cosa in sé ma per i soldi spesi. Mi misi sulla sedia di paglia in fondo, mentre clienti andavano e venivano. Cominciai a leggere. Non era Tex, non era Il Piccolo Ranger. Era un'altra cosa, una cosa che sconvolse i miei pochi anni, a cui non fui capace lì per lì di dare un nome. Capii che era più vero di qualunque storia avessi mai letto o guardato. Era violento, brutale, adulto. Come i film di Peckinpah, di Leone, che avrei scoperto poi. Una donna indiana torturata - forse stuprata e lasciata a morire nella neve - mi entrò dentro e da allora non è più andata via. Una cosa tipo Soldato blu, che era più antico ma che io vidi dopo. Lo mollai lì, non presi il secondo numero. Ero scosso. I morti sembravano veri, dentro Ken Parker, forse lo erano. Non come in Tex. E sia chiaro: ho amato e amo Tex da una vita.
Ma Ken fu una folgorazione. Ne ebbi paura. Credo che mi spaventò la prospettiva che potesse farmi crescere troppo in fretta, strapparmi dalla finzione della fanciullezza, dove tutto sembra avere una logica, dove per ogni accidente c'è un conforto. Mi rituffai nei fumetti rassicuranti. Ma ormai avevo visto il varco - come una specie di piccolo Montale - avevo capito che un altro modo di raccontare era possibile. Che il west di Ken era solo un pretesto per parlare d'altro, di tutto. La vita, la giustizia, la tolleranza. La pace, il rispetto delle minoranze, delle diversità. L'uguaglianza. Rimase dentro di me la voglia di conoscere altre storie di quel montanaro quasi analfabeta che col tempo si scoprirà - come me - grande lettore di romanzi. E qualche anno dopo ruppi il tabù. Comprai il numero 38: Il poeta. Rimasi incatenato alle pagine, fino a Fine dell'episodio. Feci in modo che capitasse in mano a mio padre, lo lesse. Lo spiavo dalla stanza accanto mentre sfogliava le pagine. Alla fine, con noncuranza, parlando d'altro, forse di calcio, disse qualcosa come Bello questo, e indicò l'albo sul tavolo. Era quel che aspettavo, la sua approvazione, il riconoscimento dei miei gusti, perché io avevo portato a casa quel capolavoro di disegni e parole.
Non smisi più di comprarlo. Recuperai gli arretrati. Ho tutta la prima serie originale: 59 numeri. Imbustati, tenuti come una reliquia.
Poi sono passati, come un'orda di cavallette, 37 anni. Di grandi gioie e immani dolori. Anche Alessandra scoprì Ken, e amò più di tutte Casa dolce casa, Adah, I pionieri, Sciopero. Storie più belle, in forma di fumetto, non ne conosco. Poesia, violenza, vita. C'è tutto.
Infine, stamattina. Un'epifania. In edicola, lo stesso amico di carta di una vita fa mi guardava come ai tempi belli. Una ristampa prestigiosa. Definitiva, la definiscono gli autori, Ivo e Giancarlo. E allora ti ho portato a casa con me, Ken, un'altra volta. E ti ho letto lentamente, e sei come ti ricordavo: eccezionale. Sei sempre stato presente in questi 37 anni. Qualche volta in primo piano, altre sullo sfondo. Mi hai educato il gusto per la narrazione piena, densa, corale, senza sconti, senza moralismi. Mi hai insegnato a riconoscere le ingiustizie, a combatterle, per quanto in mio potere. Mi hai fatto capire che per certe persone è giusto provare amore, per altre indifferenza e per altre ancora disgusto.
Oggi la collezione ricomincia, la storia ricomincia. Perché non finisce mai niente che sia necessario e che abbiamo amato come un'istigazione a crescere.
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