Passa ai contenuti principali

Il talento della bestialità

Ma lei perché scrive? mi domandò una signora un giorno a una presentazione. Lì per lì rimasi un po' infastidito, scambiando quella domanda per una provocazione. Poi ho capito che era qualcosa di più, una specie di cosa retorica la cui risposta sottintesa era: Ha ragione lei, tanto non serve a niente. Perché non serve a niente fare l'artista, avere un talento piccolo o grande, duecento persone che ti seguono o due milioni. Non ha senso mandare in avanscoperta le nostre opere - insignificanti o geniali - al nostro posto. Siamo noi che dovremmo esporci, carne e sangue, non i nostri simulacri. Questo tanto per cominciare. Poi non ha senso perché non si cambia il mondo con l'arte, neanche quello piccolo che sta dentro la nostra testa. Si impara semmai a essere presuntuosi o depressi, a seconda che si abbia successo o no. Fanno tenerezza quelli che mettono accanto al proprio nome - su facebook o solo sulla targa di un portone - la dicitura artista. Fa molto Andy Warhol ma la pop art era - quella sì -  una provocazione. Siamo tutti dentro questo frullato di finta bellezza fotocopiata, come le foto in serie di Marylin o - fatte le proporzioni - i dischi di Venditti. Tutti uguali e superficiali. Dovremmo smetterla di essere creativi, darci una regolata. Però, poi. Però poi i conti con la solitudine chi ce li fa? E con la disperata ricerca di attenzione? Quando le persone da amare vanno via per sempre devi pur tenere la mente occupata con qualcosa che somigli all'amore che - senza troppo merito -  hai avuto in dono. L'arte allora è un fantasma, i romanzi che scrivi spettri. Civette di legno che ti osservano con gli occhi torvi. Invidio tutti quelli che sono privi di velleità, che passano la vita aspettando la morte in un bar. Sono personaggi fantastici, vorrei essere così. Vorrei che l'unico scopo della mia giornata fosse arrivare vivo all'ora di cena, portare a casa eccitato i depliant dei supermercati, avere un'amante giovane e una moglie che sa cucinare, giocare a calcetto con gli amici il giovedì sera. Quelli son uomini felici. Il talento e la soddisfazione di essere innocentemente bestiale, vorrei possedere, e solo quello. Non saper fare niente e non avere nessuna voglia di fare qualcosa. Non questo fioco puntino di luce in una stanza di tenebre, non questa goccia di estro nel sangue che mi fa smanioso e infelice a ricordarmi che un'altra ragione per vivere oltre la sopravvivenza  deve pur esserci. Ma in un posto talmente lontano e nascosto che la mia anima cercatrice non potrà che intuirne, da lontano e magari alla fine dei conti, la nebulosa verità.








Commenti

Post popolari in questo blog

Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...