Succede come quando butti un sasso in uno stagno e si formano cerchi concentrici che si allontanano dal centro. La solitudine è quando tutti hanno qualcosa di meglio da fare che stare con te o ti invitano a improponibili feste in piscina con la musica di Fedez e Mengoni. E a pensarci: la parola solitudine è un inganno. Fa pensare a un'attitudine al sole, invece è un rimestare nel buio, la punta di una penna intinta in un calamaio. Mi salvano dal torpore le mie parole, che s'arrampicano su per il tempo fino a che la memoria ce la fa, fino a convincermi che quel che ricordo sia reale, non un arbitrio della fantasia. Di ricordi spaccacuore ne ho per farci una guerra. Uno porta
dritto a mio zio, il fratello di papà, maestro di pianoforte, morto
improvvisamente nel '95 a neanche settant'anni. Lui è stato un baluardo
della mia infanzia. Lavorava a Roma, faceva l'assicuratore. Si sposò
tardi, finché fu scapolo visse con noi. Tornava in treno ogni pomeriggio
alle quattro. Mi portava fumetti e adesso sapete di chi è la colpa per
una delle mie passioni. Non sapevo leggere, li leggeva lui; quando
imparai li leggevamo a due voci, io Tex lui Carson: uno spettacolo. Mia
madre gli lasciava da parte un piatto di spaghetti. Lui non voleva che
la cognata si rimettesse a cucinare in mezzo al pomeriggio e le diceva di
cuocerne un po' di più all'una. Quando li inforchettava venivano su
tutti insieme, belli collosi che parevano una parrucca albina. Abituato
ai panini della stazione Termini, dovevano comunque sembrargli una
delizia. Poi andavamo a giocare a pallone in un campo qualunque. Ce
n'erano ancora, da qualche parte nei dintorni di Narni; un paio di volte
uscì il contadino col forcone a dirci che gli rovinavamo i pomodori.
Con noi c'era Mauro Bortolotti, uno dei più famosi compositori italiani
del secondo Novecento e suo figlio Luca. Mauro e mio zio erano grandi
amici, io all'epoca non lo sapevo che Mauro era una personalità. Per me
era come uno di famiglia, una persona eccezionale, umorista unico.
L'ultimo ricordo nebbioso è ancora più antico, ero un pulcino. A casa nostra venne Pino Zac, un grande vignettista satirico dell'epoca. Tipo un Forattini di oggi. Pubblicava su Paese Sera e su L'Unità. La moglie fece alcune lezioni di piano da mio zio. Lui mi regalò uno schizzo che è l'originale più prezioso tra quelli che negli anni ho collezionato. Perché se le persone che ami e stimi vanno via, almeno resta di loro un tratto di penna Bic su un foglio ingiallito.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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