Passa ai contenuti principali

Fammi sognare ancora

Una stanza d'albergo è una stanza d'albergo. Io ci lascio il cuore in tutte ma è un mio difetto di fabbricazione. Sarà per il fatto che mi danno la sensazione dell'abbandono definitivo, come quando una persona che ami ti lascia. Non che mi amino le stanze d'albergo, o almeno non ho mai approfondito l'argomento con nessuna di loro: è solo per rendere l'idea. In una stanza d'albergo ci vivi il tempo necessario a innamorartene e a non voler più andar via. Come perder la testa per una donna che lo fa di mestiere: puoi stare con lei finché paghi e poi aria. Con mia moglie l'amore ci veniva bene, nelle stanze d'albergo, ma questa è una cosa piuttosto intima, casomai ne parlo un'altra volta. Dico solo che eravamo ispirati.
C'è che poi il ritorno a casa è storto, stralunato; non sai da che parte cominciare a fare ordine. Il lavoro già ti morde il sedere, avresti bisogno di altre vacanze per riposarti dalla vacanza, casa tua sembra finita dentro un phon acceso, la città dentro una minestra bollente che puzza di orfanotrofio. Alessandra, quando in camera avevamo trenta gradi, dormiva sottosopra: i piedi sul cuscino e la testa in fondo al letto, per tenerla più vicina al ventilatore. Sembravamo il due di spade: fa ridere, a pensarci.
Si pensano pensieri brevi, appena tornati dalle ferie, che arrivino massimo a una settimana di distanza. Fa troppo caldo per far progetti a lunga conservazione. E però, anche senza promettersi troppi futuri complicati da mantenere, due o tre cambiamenti rispetto all'ultimo inverno vorrei metterli in conto. Partirò dalla solitudine e dal senso di disastro che mi hanno inflitto frustate per tutto questo tempo e le combatterò come posso, quando posso ma senza quartiere. E vorrò ricordare cosa significa - veramente - sognare. Non il sogno delle canzoni: quello vero della vita. Avrò bisogno di qualcuno che mi aiuti a rammentarlo, ce l'avevo come concetto ma l'ho perso: sognare è un verbo che si coniuga solo in due. Perché ho sognato da solo, negli ultimi nove mesi, ma ogni forma che ne è uscita era un incubo dalla sintassi sconclusionata.

Commenti

Post popolari in questo blog

Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...