Il tempo di accasare mia figlia dalla zia e sono in viaggio. Viaggio breve, destinazione Spoleto. Viaggio lento e doloroso dentro di me: la prima volta a Spoleto da solo, dopo il 25 ottobre. Una specie di esperimento: andare nei posti che io e te più amavamo per vedere se - in solitaria, come uno che traversi l'oceano su una barca - ne esco vivo. Arrivo all'una, il cielo è invaso da una panna montata di nuvolaglie, decido di sfidare la sorte: lascio l'ombrello in macchina. Spoleto è sempre una meraviglia, una di quelle città dove andrei a vivere. Oggi, che è pasquetta, è camminata da italiani di tutte le parti: riconosco accenti pugliesi, romani, napoletani, veneti. C'è un clima di festa: passano in ordine sparso, sgombre di pensieri, le famiglie coi biberon agganciati ai passeggini e le bimbe in gambelicche ai padri; io - per quel che mi riguarda - rinnovo mesto la nostra felicità. Che ora sembra un sogno e pure fu tanta e durevole. Davanti al duomo c'è sempre quel venti metri d'ombra sulla scalinata che complica il lavoro ai fotografi e ai loro esposimetri. Più giù, davanti alla facciata, il sole la fa da padrone e la gente sciama e scatta immortalandosi l'un l'altra e ridendo a voce grossa. Entro al Desir, una di quelle botteghe in cui lavorerei quasi gratis: vendono oggetti di legno fatti a mano, buffi e costosi. Compro un dosaspaghetti per una persona cara che ha deciso di dare una svolta alla propria vita. Mi faccio fare il pacchetto dal signore gentile dietro la cassa. Gentile e distratto: dopo che lo ha incartato mi domanda Quant'è che costava? Salgo su fino al ponte medievale, la cui fama di ponte dei suicidi è più nota della sua bellezza. Lì da presso c'è il Gattapone, albergo malinconico affacciato sull'abisso. Io e te volevamo passarci qualche notte a far l'amore, l'avevamo messo in conto, poi quel progetto non l'abbiamo mai concretizzato. Comincio ad avere fame. Una coppia di fidanzati mi chiede se gli scatto una foto: li accontento. Ridiscendo verso il duomo, passo davanti alla fontana del Mascherone e poi nei pressi della Taverna dei Duchi, dove mangiammo uno strepitoso menu turistico, un ferragosto di pochi eppure infiniti anni fa. Prendo un gelato che mi sazia per un po', mi guardo ancora intorno: le pizzerie al taglio sono prese d'assalto e desisto. Torno alla macchina, il cielo allarga il suo celeste. Sembra quasi che tu sia qui con me e abbia soffiato via il maltempo. Rientro con calma, guidando come volevi tu: senza fretta. A casa mi accorgo ancora una volta che mi manchi come una condanna a vita che ho appena cominciato a espiare.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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