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La diet coke e il lupo mannaro (racconto)

La fila allo sportello è lunga, può darsi qualcuno finisca per mollare.
Sono qui da quaranta minuti, lo sportello deve ancora aprire, ho in mano il mio numerino di carta bianco e arancio che ho arrotolato già mille volte tra le dita. L'ho messo tra le labbra, come una foglia di tabacco. Aspetto invano che qualcuno mi dica di andarla a fumare fuori.
Ho controllato i messaggi al cellulare: sono quelli di ieri, nessuno scrive a chi è in coda a uno sportello. Davanti a me due vecchi parlano di prostata, acidi urici, glicemia. Io spero di arrivarci alla loro età per poter discutere dei miei acciacchi con un coetaneo.
Apre lo sportello.
Una donna incinta passa davanti a tutti. Un tipo segaligno, con un ragazzino incappottato e smunto per mano, dice di avere la precedenza per via del bambino che deve portare a scuola. Sulla destra una signora bassa con un cappello che sembra un serpente acciambellato mi pianta un gomito nelle costole, si mette davanti, domanda con voce acidula: "Lei che numero ha? Il 47? Allora io vengo dopo di lei, la signora bionda dopo di me, il ragazzo con la maglia a righe è arrivato adesso, l'ho veduto entrare: è l'ultimo. E non ha preso il numero".
Pianifica la fila, tiene sotto controllo la situazione, si autonomina responsabile delle precedenze. Dopo la sentenza non sono ammessi reclami: chi pensa di subire un sopruso lo dica subito o taccia per sempre.
Dietro lo sportello c'è un impiegato tristo, gli occhi scoppiati, le orecchie di carne grossa: due bandiere, una a mezz'asta, l'altra dritta come a una parata di veterani, rossa, lanuginosa. Ha denti appuntiti che sembrano zanne, una faccia piena di peli, sopracciglia unite. Si alza e si risiede di continuo, stampa le analisi, piega il foglio in tre, lo passa sotto il vetro.
Immagino come sarà la morte scritta su un foglio A4 della Asl. Probabilmente è asettica, come la sentenza di un tribunale. Burocratica. La morte su un foglio di carta. Dev'essere affascinante per chi compila quei dati, per chi interpreta quei numeri, per chi avrà contato uno per uno i miei leucociti ed eritrociti.
Quel medico secco, uscito adesso da una porta laterale, ha l'aria di sapere il fatto suo. Tiene gli occhi a terra, cammina a scatti, passa in mezzo alla fila senza dire Permesso; è uno indaffarato, sta andando a salvare vite umane. Non può perdere tempo a essere cortese.
Mentre passava mi ha guardato. Deve avermi riconosciuto. Deve aver capito che il sangue che ha analizzato è il mio. Lui sa quel che io ancora non so: avrà calcolato quanto mi resta da vivere? Stava per dirmelo ora e poi non ne ha avuto il coraggio? C'è della santità in quel dottorino.

La sofferenza a stare qui, in coda, più che un dolore è un desiderio di andare di corpo. Si dovrebbe curare la stipsi così. Cominciare la fila da sani e allo sportello scoprirsi malati terminali è solo questione di tempo. Dipende da quanto è lunga la fila. Nel frattempo puoi essertela fatta addosso.
Che è pure un'occasione per riflettere, la fila. Riflettere sui pro e i contro della tua vita; su quello che ti dispiace perdere e su quello che sei contento di dover lasciare; sulle cose che lasci in sospeso e che tuo figlio continuerà per te, o manderà in malora.
Tutti i film che sai che stanno per uscire, ci hai fatto un pensierino: una cena intima, la multisala, poi a casa a far l'amore. Cose che non potrai fare. Quegli altri film degli anni Cinquanta che hai scaricato e ti sei ripromesso di guardare col tempo e lo stato d'animo giusti. Hai rimandato troppo, era meglio se li guardavi prima. Quel romanzo che sei arrivato a pagina 86 ma sono 849 e sei appena a un decimo e rimpiangi i diciannove euro e non sai come andrà a finire l'avventura sulla Cordigliera, e così speri che dall'altra parte ci sia almeno una biblioteca per levarti la curiosità
Perché uno non ha mai finito di fare le cose che fa. Altre se ne accumulano, i libri s'impilano sul comodino, le rate del mutuo si dilatano come stomaci a un pasto funebre, la nuova familiare uscirà solo tra sei mesi, la campagna acquisti quest'anno è stata finalmente all'altezza, la squadra è forte ma giocherà senza di te.
Tu comunque continua ad accumulare cose, che è come comprare il tempo.
E poi lasciare le parole. Ce ne sono alcune che onestamente non rimpiangerò. Step è una di queste. O anche talk show. Ottimizzare. E feed-back, con quello stupido trattino in mezzo che sembra un passaggio a livello per deficienti.
Ma altre le ho amate, succhiate tra la lingua e il palato per trattenerne il sapore, come l'ostia sconsacrata alle prove della comunione; ogni parola diversa ne ha uno diverso, di sapore, pietanze alla carta di un ristorantino di sintassi.

La bellezza delle parole.

Contrafforte, per esempio, o empietà, o leguleio; o altre che ho usato con rispetto: sardonico, infingardo, perché hanno un cuore, una memoria. O un aggettivo come formidabile.
Ho sempre amato l'aggettivo formidabile. Dà l'idea di uno che è abile a costruire forme, un demiurgo, uno che porta l'acqua dove non c'è.
Uno scrittore.
Ho amato certe parole più di certe persone e non me ne pento. Neanche adesso che il vetro dello sportello si avvicina e le zanne dell'uomo (l'uomo?) che c'è dietro scintillano sotto la luce al neon, e le orecchie appuntite come antenne, e le labbra grigie e il ghigno che gli si è acceso in faccia non mi lasciano tranquillo.
Neanche adesso che d'improvviso ricordo d'essermi scordato di riportare Spike Lee. Quella dannata videoteca fuori mano, la buca per riconsegnare i dvd che è una tagliola che una volta quasi mi ci tronco un dito. Ancora cinema, per la mia vita che s'avventura sul viale del tramonto.
Almeno William Holden era già morto dentro la piscina prima di cominciare a raccontare la sua storia. Io ho iniziato che sto ancora sulle mie gambe, cristo di dio.
Ieri l'altro ho preso Spike Lee perché volevo sentire un po' lo slang di Harlem tradotto in italiano, rivedere le strade luride dei pusher, i campi di basket spaccati dal sole, gli stereo in spalla. Risentire la strafottenza del rap. Non c'era il rap ai tempi di Malcom X ma Denzel Washington lo rifà così bene che sembra lui resuscitato. Anche lì, parole che per una stagione ebbero un senso, fecero speranza, finché non soffocarono nel fumo di cordite.

Guardo l'uomo dietro allo sportello.
L'impiegato ha finalmente lasciato il posto alla bestia, le zanne come manubri di bicicletta. Sul muso un muschio, due grumi di pirite gli occhi, brontolio di intestino la voce. La metamorfosi è completa. Un altro verso gutturale e il licantropo si manifesta, rinasce nella ferinità, lupo della mutua.
Solo io sembro vederlo;
è un mostruoso burocrate al lavoro;
il suo lavoro comincia solo adesso.
Con un balzo vola oltre lo sportello, azzanna alla gola un pensionato, lo scuote fino a che quello gorgoglia e poi molla  la presa. Spalanca le fauci. Intorno la fila prosegue annoiata e in disordine, senza accorgersi. Svuota i polmoni in un urlo d'aria tremante. Geme, s'aggattona in un canto, mugghia e brontola un mezzo ululato. Procede in cerchio con le quattro zampe, le unghie rigano il linoleum, appuntite come corna di capra.
Scruta tutti con livore, soffia aria dal naso, che è schiacciato e fradicio, poi si lancia contro il bambino smunto. Il tipo segaligno neanche se ne accorge. Al primo assalto, con un morso gli stacca il braccio sinistro all'altezza della spalla; un attimo dopo gli maciulla il fianco; con una piroetta del muso lo lancia in aria e quello ricade giù nel suo cappottino insanguinato. Il tonfo per terra è appena percettibile.
Il pavimento è lordo di sangue e interiora.

La fila continua folta e nervosa.
Il dottorino di prima riappare, nella sua santità. Con un saltello - op! - supera i resti del bambino, sposta con la scarpa il suo fegato, ignora il mostro e infila contromano la stessa porta da cui è uscito.
Il lupo mannaro continuo a vederlo solo io.
Mentre siamo in fila - mentre stiamo per essere sbranati - qualcosa nel mondo deve essere cambiata. Qualcuno - qualche milione di persone - ha fatto in modo che qualcosa cambiasse. Perché le cose cambiano anche se noi stiamo fermi.
Ne ho parlato a scuola, mi sono illuso ancora una volta che potesse esserci una possibilità di contatto tra un vecchio ragazzo moderno come me e ragazzi nuovi solo contemporanei. Mentre guardavamo Indovina chi viene a cena una quindicenne disegnava una svastica sul banco con una matita delle Winx.
Non sono così codardo, le ho chiesto perché. Al ricevimento genitori l'ho chiesto anche a sua madre. Ho ricevuto la stessa risposta: "è solo un disegno".
Continuo a commettere lo stesso errore. Devo smetterla di intromettermi nella vita degli altri.

Ho festeggiato poche cose nella mia vita. Non perché non ne valesse la pena ma solo per non far teatro delle piccole vittorie. Un cugino di mia moglie, laureato in scienze forestali, festeggiò il dottorato in un ristorante dove servivano pane e salame su vassoi di cristallo.
Oggi però vorrei tornare a casa e trovare sul tavolo della cucina una bottiglia di diet coke, un bicchiere. Mia moglie me li farà trovare se in America il nero è diventato il colore giusto. Sidney Poitier approverebbe, e io sono astemio.
Ma non so se questo mostro in agguato mi farà tornare da lei. Ora affonda le sue zanne nel ginocchio della donna col cappello di serpente. Lei lo ignora eppure lo squarcio nella sua gamba sembra un taglio di prima scelta.
Ricordo quando mia madre mi mandava a comprare mezzo chilo di carpaccio. L'odore della macelleria lo detestavo perché era l'odore dell'agonia delle bestie. Il rantolo del sangue dentro il buco dello scarico, la testa del vitello sopra il marmo, mi agghiacciavano. Diranno lo stesso di noi una volta sdraiati sul tavolo dell'obitorio; qualcuno verrà distrattamente a salutarci, in un freddo mattino di marzo. Fuori la foschia farà galleggiare la città come dentro a una minestra. Entreranno, ci daranno un'occhiata e faranno fretta a chi avranno accompagnato perché altri impicci li stanno chiamando. Entreranno e usciranno dall'obitoro sei, sette volte, con la faccia piegata a tristezza, i passi lenti. Ma penseranno all'amante che li vuole mollare, al buco di bilancio su cui indaga la finanza, all'amico ricco che s'è fatto la macchina nuova. E sussurreranno: "C'è odore di macelleria in questo posto".

Il serpente che era il cappello della vecchia è a brandelli in giro per la stanza. La vecchia ha il cranio scoperchiato. Il dottorino ricompare, ci guarda dentro, dice: "La tratteniamo per accertamenti". La vecchia si commuove per la premura, raccoglie la sua calotta cranica dal pavimento e zoppicando segue il medico dentro un'altra porta.
Il licantropo è sazio. Sta sotto la panca di legno addossata alla parete alla mia sinistra, si spulcia e ogni tanto mugola un guaito di digestione. La Asl è un campo di battaglia, la fila sembra una fila di morti.
Qualcuno protesta perché si va a rilento. La donna incinta di prima si volta a rassicurare tutti: "è andato a prendere delle monete", dice riferendosi all'impiegato. Pensano che sia andato a cambiare dei soldi. Com'è che solo io vedo quello che succede realmente?
Mi accerto ancora una volta di avere in tasca la mia tessera sanitaria, e il foglio per ritirare le analisi. In fondo questo contrattempo mi allontana dalla sentenza che mi aspetta allo sportello. Finché sono in coda sono sano.
C'è una donna grassa, di mezza età, che ha preteso  una sedia dall'infermeria. Le hanno portato una sedia pieghevole che è scomparsa sotto la sua mole. La carne delle sue cosce ricade sgonfia verso il pavimento. Sembra star seduta sul niente, è un camion con le gomme a terra.
Si è messa in mezzo alla stanza, per vedere se qualcuno prova a passarle avanti. Comincia a parlare con tutti quelli che le capitano a tiro. Dice: "è stato bello per tutta la mattina e appena sono uscita ha preso a piovere". Qualcuno risponde: "già, già...", altri annuiscono e basta. Il lupo mannaro la guarda con poca attenzione, poi comincia la sua toletta. Si lecca le zampe e se le passa sulle orecchie, come un gatto.
Decido di non darle confidenza. Parlare del tempo non mi va, non ho studiato, non so che dire. Professoressa, vorrei giustificarmi.

Devo dire a mia moglie che sto per morire. Trovare la parole. Se qualcuno può consigliarmi come farlo, gliene sarò grato. Se la cicciona la smettesse di parlare del tempo e mi desse qualche dritta potrei anche ricredermi su di lei. Avrà pur visto morire qualcuno. Avrà pur sentito qualcuno - dopo aver ritirato delle stupide analisi del sangue - confidare a qualcun altro di stare per morire. Non può non essergli capitato, con tutto quel grasso addosso.
Le persone grasse hanno più saggezza, hanno accumulato proteine, colesterolo, esperienza. Hanno discusso, argomentato. A loro si rivolgono quelli che hanno bisogno di sfogarsi, di farsi ascoltare. Ho sempre sognato di avere un amico grasso che avesse la pazienza di starmi a sentire. Un soffice essere umano con in mano un croissant che sapesse tranquillizzarmi e indicare l'uscita del labirinto. I grassi assorbono come plantigradi onnivori tutto quel che gli capita a tiro. Mangiano e digeriscono con disinvoltura ciò che a noi malinconici magri occorre una settimana per smaltire. Catalogano i problemi, li compattano, li salvano dentro una nuova cartella. Sono gli archivi dei guai del mondo.
Tutti tranne questo camion con le gomme a terra che continua a parlare del tempo.

Potrei spiegarle i miei sintomi, se la smettesse di fingere che del tempo le importi qualcosa.
O magari fa apposta. La sua stupidità mi fa rabbia e la rabbia è la mia cura. Compresse di rabbia, da prendere con poca acqua lontano dai pasti. La rabbia mi mantiene vivo. Finché sono arrabbiato sono vivo. Sono in fila da un'ora e adesso pure arrabbiato. Quindi doppiamente vivo.
Tanto che mi scordo di stare per morire; è per questo che faccio un mucchio di cose che sembrano importanti: per dimenticarmi di dover morire. La vita è una distrazione. E la signora grassa una benefattrice. Tu sia benedetta, signora grassa che parli del tempo. Mi mandi in bestia per quanto sei ottusa e la bestia che divento, come quel povero cristo d'un impiegato mostruoso che deve consegnare la morte alla gente, dimentica il suo destino. E ogni progetto ridiventa possibile. Fino alla prossima coda allo sportello. Alle prossime analisi. Alla prossima ecografia.

Sorrido. Mi viene da fischiare una canzone di quand'ero ragazzo. Un motivo dell'estate.
Mi guardo intorno, sono ancora a metà della fila. Davanti a me, e dietro, anime smagrite aspettano la fine del mondo. Tutte in fila col loro numero bianco e arancio e la tessera sanitaria.
Tiro fuori di tasca la mia impegnativa. Si chiama così. E io mi sono impegnato a prendere l'appuntamento, fare le analisi, venire oggi a elemosinare le risposte.
Il mio dovere l'ho fatto, ora basta.
Straccio il foglio, faccio una pallina di carta. Calcolo la distanza dal cestino sotto la finestra, è un tiro da tre punti. La pallina parte, fa una parabola breve: canestro.
Esco dalla fila. Chiedo a quelli dietro se qualcuno vuole il mio numero, mi guardano come avessi parlato in giapponese. Sorrido ancora, più impercettibilmente: non vorrei dare l'impressione di essere felice.
Mi avvio a passi lenti, distratto, verso l'uscita. Faccio una coccola al licantropo, gli gratto la testa, lui fa le fusa.
Sono in strada. C'è il sole. Malato anche lui, indebolito, bianco. Ma c'è. Per terra i resti della pioggia.
Raggiungo la mia macchina, torno a casa.
Vivrò la mia vita non chiedendomi nulla più di quel che può avere risposta, senza calcolare i giorni che restano, senza più avere paura. Senza più stare in coda a uno sportello.
A casa mi aspetta la mia famiglia e un bicchiere di diet coke sul tavolo della cucina.














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