Forse si compiace un poco, si specchia in se stesso, cerca l'effetto poetico a ogni curva del racconto quando dovrebbe andare sul pratico. Ciò non toglie che I pesci non chiudono gli occhi, di Erri De Luca, sia un libro potente: essenziale e compiuto allo stesso tempo. La storia di una fanciullezza che detesta il proprio corpo e vorrebbe romperlo per vedere se ne esce cresciuto è la storia della fanciullezza di tutti. Solo per un incidente è ambientata a Napoli in un'estate degli anni Sessanta ma andrebbe bene lo stesso se fosse qui e ora. Bello è quando il racconto prende la strada della commozione, nel ricordo che lo scrittore fa di sua madre; e anche di suo padre, innamorato dell'America a tal punto da mollare tutti e andarci e poi esule a casa sua e pesce fuor d'acqua, nella stessa Napoli, negli anni confinati del ritorno. C'è una ragazzina più grande del bambino che Erri è a quel tempo: il suo primo amore. Lui non ricorda come si chiamava e non vuole inventarle un nome. Con lei scopre il significato segreto del verbo mantenere: tenere per mano, e la sua mano afferra quella di lei in un gesto che gli farà scoprire assieme la dolcezza e il presagio del distacco. E ci sono tre guappi, tre mascalzoni, ragazzini pure loro, che si danno man forte l'un l'altro e per competizione, per istinto animale, a un certo punto gonfiano di botte proprio lui, il bambino che ama i cruciverba, i silenzi e andare a pesca. E alla fine c'è una specie di giustizia divina che per ingegno della ragazza ridicolizza la violenza e premia la vittima con un primo bacio e altri, ripetuti, nei giorni successivi. Lui, quando lei lo bacia, tiene gli occhi aperti. Perché? gli domanda. Perchè i pesci non chiudono gli occhi è la risposta. Un altro modo per dire: conviene allenarsi a guardare la realtà anche quando spaventa.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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