Cento, centocinquanta, duecento. Perché dovevano bastare fino a primavera, perché se a Pasqua qualcuno ne voleva un pezzetto, doveva trovarlo in dispensa, avvolto nella carta oliata. Serviva a unire la nascita alla resurrezione, certo, però non era solo un discorso religioso, erano una festa - sobria, composta e lunghissima - e una speranza. Che nutrivano specialmente i vecchi, in silenzio, brontolando giusto sui ritardi dei nipoti al cenone. Noi l'avremmo capita dopo, io l'ho capita da poco: la speranza che quella compagnia non si sciogliesse mai, non si stancasse di mangiare assieme, di guardare l'albero scintillare, che nessuno si ammalasse, che nessuno invecchiasse. Duecentocinquanta, trecento, mille, ne avrebbero preparati, allora, se fosse servito a fermare il tempo, a far ardere per sempre lo stesso ceppo nel camino, a non far ammuffire i chicchi di granturco per la tombola. I viaggi che Gino e Gastone facevano con la spianatora sulle spalle da via della Pigna fino...
Sdraiato sui binari: diario di bellezze malsincere in attesa del treno. Sperando che porti ritardo.