Per davvero - mi sa - c’è soltanto un albergo a Venezia. È l’albergo dove chi ho amato ritorna e mi aspetta, seduta nuda a gambe aperte, ed ha pochi volti, e a seconda delle stagioni le labbra che ho baciato, i seni che ho morso. Sta in un angolo scuro e guarda chi va lì a far l’amore e l’uomo che c’è non è mai l’uomo che vorrebbe. Perché io, che viaggio, quell’unico albergo non lo trovo più – ma cento altri. È sperso nella nebbia, affogato nel salmastro umore della città; esiste ma non è vero: gli assomiglia al più qualcun altro d’una parentela storta, inconsistente. Ho cominciato a cercarlo che ero ragazzo, e studiavo non ricordo più cosa, contro lo schermo dei pomeriggi d’ottobre, cinema che proiettava al cielo un crepuscolo rosa di nubi gonfie, spettacolo che non voleva saperne di diventare notte. La bellezza, così, s’aggrappava al graticcio della terrazza come un predatore, e mi entrava in casa, e posavo il libro di Epigrafia – giuro che non mi ricordo: ho detto a caso...
Sdraiato sui binari: diario di bellezze malsincere in attesa del treno. Sperando che porti ritardo.