Da ragazzino, mio padre aveva una diagnosi certa per ogni mio malanno - Se ti gira la testa è perché mangi troppo poco - e allora io mi domandavo a che servisse il medico della mutua. Possiamo farne a meno - provai a dire una o due volte, ma non mi dava retta. Papà arrivava prima di qualunque luminare, perfino di quell'espertone di Roma - prof. Boscherini, mi pare si chiamasse - che valutò una mia tosse invincibile frutto dell'emotività. Una reazione psicologica alla paura di crescere, rivelò a noi profani, senza sollevare gli occhi dalle sue carte. Devi stare più calmo, te lo dico sempre - trionfò papà appena fuori dello studio, e per due settimane presi degli ansiolitici blandi che però mi addormentavano. Siccome la tosse non passava, alla fine mi portarono dal medico di famiglia. Una ammissione di sconfitta, per papà, ma non c'erano santi: mi strozzavo. Il mio medico confessò che quei farmaci a suo figlio non glieli avrebbe mai dati. E io lì cominciai a preoccuparmi: avevo solo otto anni ma ero già in allarme sulle disgrazie che mi potevano cascare addosso. Mi vietò tutte le compresse e comandò: Portatelo al mare. Passai così una quindicina di giorni a Santa Severa, a casa dei nostri cugini di Tivoli, che per inciso è tanto che non vedo e di cui ho nostalgia. Stavo in acqua tre ore al giorno e mia madre piangeva a casa per la lontananza, ma con l'egoismo sano dei ragazzini me ne infischiavo; mangiavo il gelato di mattina - cosa che a Narni era rigorosamente proibita, come un capriccio erotico per una suora - e facevo anche le dieci e mezza, la sera, sulla veranda in coda alla spiaggia, a immaginare l'avvenire.
Va beh, non è vero che immaginavo l'avvenire: lo scrivo adesso. Perché se avessi immaginato l'avvenire e ci avessi preso, sarei rimasto imbalsamato a quegli otto anni per tutta la vita. Quando i miei tornarono a prendermi mia madre decise di portarmi da un biciclettaio a togliere le rotelle. Imparai ad andare in bici quel giorno, sul lungomare di Santa Severa, a metà esatta degli anni Settanta, quando le persone che amavo c'erano ancora tutte e quelle che avrei amato non sapevo nemmeno che esistessero. All'Italia ne facevano di ogni colore, e agli italiani, ma dei servizi segreti deviati, delle brigate rosse, delle stragi, si sarebbe saputo nel tempo, a brandelli e con calma. Mi ricordo, poco appresso, il primo dei miei quattro viaggi in Sicilia, in Dyane, con i miei, e con Mauro e Gastone, che svoltarono tutta una notte in bianco, a Reggio Calabria, ad ammazzare le zanzare a cuscinate. Era il 1977, e avevo dieci anni, e tutti eravamo armati delle migliori intenzioni. Di passare una vita serena, dico, giù dalle montagne russe, placida. Ad alcuni di quei miei compagni di viaggio è toccata, credo, quella sorte. A me no; anzi: è stata un luna park macabro e sanguinario; talora commovente al punto da non desiderarne altri. E alla vigilia dell'ennesima mutazione, oggi, non so se avrei preferito una vita soporifera a questa malnata e schizofrenica che mi è capitata.
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