Quando io parlo parlo in greco. Quando io scrivo scrivo in greco. Quando gesticolo, quando cammino, quando invento, quando sperimento, gesticolo, cammino, invento, sperimento, in greco. Perfino quando sto zitto, sto zitto in greco. Nelle vene mi scorre il sangue di Salamina, nelle orecchie i suoi urli di battaglia; sotto le mie scarpe dorme la polvere del monte Athos - sotto i piedi dolgono le aguzzità - tentando in cima gli asceti misogini, per saperne la pazienza; il vento delle Termopili mi arruffa i capelli, se sto dritto a guardare il mare pur da un altro promontorio: la posa è la stessa, l'attesa dell'ultima alba uguale, il coraggio a vivere coerente. Ogni pensiero, ogni risoluzione, vengono da quel passato, o sarei immobile, diseredato. Così la bellezza femminile: piena e rotonda, altrimenti non c'è. Vado ai matti per la ragazza dal ventre molle, lievemente pingue, maniglia cui appendersi mentre le sto dietro, come Adone - sebbene io di tratti meno graziosi - ad Afrodite quando giacevano sconci a Cipro, tra le ninfe dispettose. Devota è tutta la mia memoria: un emporio di vasi che contengono tutto ma in cui non c'è scritto cosa, così pesco a sorte, e tento pallidamente di assomigliare. Le mie sere calanti sul terrazzo - già che luna spande un manto di luce e ci si vede, a far l'amore con le cose - vengono dalla città di Pericle, dai suoi vigneti a primavera, dai richiami dei venditori di corbezzoli, dei bettolieri, dal Pireo maestoso, galleggiato di barche e navi da guerra come a uno specchio immane s'imbranca un nugolo di narcisi. Io sono tutto quello che mi han caricato sulle spalle, tutti i vezzi grammaticali, i magnifici modi di dire, le raffinatezze dei doppi sensi, l'ironia inventata, le parole distinte e poi attaccate a formarne altre, il parto della sintassi complessa perché complesso è l'uomo, l'aoristo, le sfumature di tempo. Io sono tutto questo e devo ricordarmene, quando scrivo. Sono l'inizio della civiltà e la sua affermazione, non la decadenza. Io sono moderno e non contemporaneo, perché quando sono contemporaneo vengo sfocato mentre la modernità è nitida, sempre. E non ho meriti, badate, sono pur sempre l'ultima ruota del carro, non è un vanto ma una percezione: del dono che mi è stato fatto. Per cui quando umilmente racconto vado nel retrobottega e prelevo. Come con un bancomat - ma senza venalità - tutte le ricchezze di cui il mio conto corrente è pieno. E faccio del mio meglio per non dilapidare tutta quella bellezza.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post