Una volta lavoravo con più entusiasmo: ero giovane. Da un po' di tempo sento che quello che faccio ha un senso solo per me, e nessun altro. Lo chiamano insegnamento, mi chiamano professore. E pretendono che io sia anche gendarme, psicologo, spalla su cui piangere, rassicuratore di genitori. Io che ho il culto della mia ragazza e poi in subordine quello della parola scritta, scopro che la parola scritta non attira nessuno, è disutile. Sprecato il tempo che si passa a spiccicarla con le labbra, a decifrarla. Ho una passione congenita per la bellezza: da una manciata di settimane ne ho avuto conferma. So riconoscerla, ho questo vanto. Ma le ore dense nate a scuola troppo più spesso a scuola muoiono e non c'è nessuno che renda loro giustizia. La bellezza a quello che insegno non gliela dò io, naturalmente. Condisco come meglio posso un racconto, questo sì. Se sono in buona - e sono in buona se ho lei nel cuore e nell'avvenire, come provvidenzialmente accade da quella domenica di settembre dopo cui nulla è stato e sarà mai come prima - recito un po', e la cattedra è un palco. Me l'hanno anche domandato, se ho mai fatto l'attore. Ma il viaggio delle parole che straziano la vita - la nostra - finisce in un vicolo cieco quando ti rispondono, ansiosi di uscire a fumare: Non serve a niente, o a diciott'anni si svelano cinici come neanch'io a quarantasette.
I sognatori fanno una brutta fine. O bellissima, a seconda dei punti di vista. Quella che io credevo fosse la mia - ad esempio - era imprevedibilmente un nuovo inizio. Non l'avevo capito, benché la felicità mi corteggiasse garbata attirandomi a lei. Poi l'ho riconosciuta e almeno questo merito - tardivo - me lo prendo.
Con i ragazzi che ho di fronte, che giocano a Bubble Island sul cellulare e scommettono sulla Champions mentre parlo loro come mai un mio insegnante ha fatto con me, la partita da vincere è dura. Ma io - capatosta - non mi arrendo. Ho perso entusiasmo, l'ho detto, ma ho acquistato determinazione. E comunque continuo a fare quel che faccio per me. Perché mi piace. Perché poco altro so fare. Perché è esaltante parlare di letteratura anziché di numeri. E perché tu che m'hai preso sulla porta dell'inferno e mi hai tratto in salvo, mi ami per quello che sono, sono stato e continuerò a essere. E questo è quello che io e te - non altri, non qui - chiamiamo amore.
I sognatori fanno una brutta fine. O bellissima, a seconda dei punti di vista. Quella che io credevo fosse la mia - ad esempio - era imprevedibilmente un nuovo inizio. Non l'avevo capito, benché la felicità mi corteggiasse garbata attirandomi a lei. Poi l'ho riconosciuta e almeno questo merito - tardivo - me lo prendo.
Con i ragazzi che ho di fronte, che giocano a Bubble Island sul cellulare e scommettono sulla Champions mentre parlo loro come mai un mio insegnante ha fatto con me, la partita da vincere è dura. Ma io - capatosta - non mi arrendo. Ho perso entusiasmo, l'ho detto, ma ho acquistato determinazione. E comunque continuo a fare quel che faccio per me. Perché mi piace. Perché poco altro so fare. Perché è esaltante parlare di letteratura anziché di numeri. E perché tu che m'hai preso sulla porta dell'inferno e mi hai tratto in salvo, mi ami per quello che sono, sono stato e continuerò a essere. E questo è quello che io e te - non altri, non qui - chiamiamo amore.
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