Il cielo in città pesa di più. E passano uomini curvi come punti interrogativi, e camminando si guardano le scarpe e calcolano il rischio di andare. Che è spaventevole, ma loro lo beffano col moto perpetuo, e giocano a essere fuori dal tempo - dalla tecnologia - e brandiscono cellulari antidiluviani con le mani grosse. Vanno a genio solo a se stessi, e a certi amori sfollati cui vorrebbero portare rose vecchie, sfiorite. Io uno ne ho visto, di costoro, non più tardi di ieri l'altro. Pioveva, e teneva pure lui la testa china, e ha preso a un certo canto per la periferia dove il fiume si colora di acque reflue, e sul greto di incauti pescatori. L'ho immaginato inzuppato di memoria, solleticato da ragni sulla schiena, in una notte perenne che magari, al contrario, ai suoi sensi è primavera, scostato di un passo dalla necessità di essere normale. Un uomo secco, dalla barba di spini, che esiste appena appena sopra, o di lato, o di spalle a noialtri tutti; e ostinato di una determinazione d'acciaio, c'è il caso. La sua rosa triste lo tradiva romantico, ma troppo tardi perché questo si potesse dire di lui con invidia, alle costole di una felicità che lampeggia, come gli impazienti ai semafori. Eppure - intestardito - andava, coi graffi delle spine sulle dita, incurante degli sberleffi dei ragazzi, perché da qualche parte quella donna che sospetta di amare deve pur abitare, ancora. E camminava, e cammina ora, e domani, che io scriverò, o mi riposerò, o farò l'amore. Cammina mentre gli altri vivono vite fraintese, muove mentre stiamo fermi ad aspettare le cose. Scherza a contraffare le poche certezze: se ti chiede Che ora è si aspetta che tu gli risponda Giovedì, e la vita la giura un male che si cura senza anestetico: tutto il dolore che le è sotteso, tutto, in un fiato, fino a saziarsi. Non c'è antidoto alla malinconia, non conosce altro stato d'animo, e talora la chiama tenerezza, talora felicità. Talora, svagato, ne piange. E se qualcuno gli strilla di andarsene da un posto di uomini savi lui replica Non urlarmi negli occhi, che le orecchie gli servono per contemplare - infrangibile - la sua vita fiera.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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