C'è insomma questa gestione del tempo, che è da considerare ogni volta. Il tempo di lettura di qualcosa: libro, fumetto, giornale. E non è un tempo che le possiamo dare noi - ai miei corsi di scrittura lo ripeto appena è il caso - ma è un tempo che sta dentro alla sceneggiatura, al pezzo, alla tavola, una cadenza che gli inietta l'autore. Perché l'autore sa come devi camminarci, per goderti le parole e per capire quel che loro ti raccontano: a volte accelera e tu devi corrergli appresso; a volte rallenta, e allora anche te è bene che vai piano. Ne ho avuto conferma leggendo un nuovo fumetto, cui sarò fedele ogni mese. Si chiama Mercurio Loi (Sergio Bonelli Editore), è a colori, è ambientato a Roma. Ma due secoli fa. Me lo sono assaporato lentamente, perché la lentezza è il ritmo - il tempo, appunto - che gli ha dato il suo autore: Alessandro Bilotta. Ad andar di corsa avrei mortificato la densità dei dialoghi, l'ironia che qua e là esplode, il giocare al gatto col topo del protagonista col suo allievo, Ottone; e avrei tralasciato tutto il non platealmente narrato, il suggerito, che pesa quanto l'esplicito, per capire i dettagli dell'avventura e intuirne gli snodi futuri. Così pazientando, mi sono beato dell'emozione di certi scorci della città fiera, magnifica come l'ho vista solo a teatro, ma di cartapesta, con Rugantino; o immaginata nelle Odi Barbare di Carducci, quando il poeta invocava la malaria su chi la involgariva. E avrei malcompreso, se fossi andato di fretta, i collegamenti tra una scena e l'altra, tra una macchinazione e un attentato, tra una confessione notturna con un maggiordomo pingue, una riunione di massoni e un drappello di carabinieri che - rispettosamente - cercano di malavoglia libri da mettere all'Indice dentro la biblioteca di Mercurio, professore con l'espressione paracula, e la faccia a metà tra Robert Hossein e Kermit il ranocchio. Finalmente un eroe dei fumetti bruttino e sgraziato, tra l'altro. Invece, placidamente, come camminando a piedi - metafora della lettura riposata che l'autore suggerisce in prefazione - ho vissuto dentro la storia, protagonista anch'io come gli spettatori scaltri di ogni buon romanzo. Perché questa è narrativa disegnata - e disegnata magistralmente. In questo primo numero da Matteo Mosca, mentre il numero due, a fine giugno, sarà opera di Giampiero Casertano: non so se rendo l'idea. C'è la bottega di un barbiere nella quale mi servirei; le segrete di un carcere nel quale imbastirei un altro romanzo; tagli di luce magnifici, a proiettare il sole sui sampietrini. Una goduria per gli occhi. E a tutta questa bellezza, le copertine di Manuele Fior fanno da goloso antipasto. Questo è quanto. Perciò vi do un consiglio, prima di piantarmela: leggere per credere.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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