Magari il tempo perso a stare male per colpa nostra ce lo rinfacceranno, e ci diranno che siamo stati stupidi, e ci sarà una tassa da pagare per ogni giorno sprecato in commiserazioni del disastro. Per cui, olé, si vive, e si viva come dio comanda, e difendiamoci come possiamo; io presempio a colpi di parole che ambiscono a vesti nuove, e le stanno cercando, perché non mi contento e sospetto di averne diritto, per quanto - di numero e peso - scrivo. Non posso passar la vita a schernirmi, per via che l'umiltà è cautela savia, ma troppa diminuisce, e non conosco nessuno di buona fama che non abbia la giusta percezione dei propri mezzi. Mi piace scrivere per farmi leggere - un'ambizione allegra; è essenziale che mi facciate sapere che vi ho emozionato, in qualche modo. Con le confessioni di questo blog, arrampicate sui ricordi; coi miei tre romanzi sghembi e spassosi; con le storie che improvviso in pubblico e le sceneggiature che fingo di inventare, tratte su da laghi pescosi che si chiamano Scott Fitzgerald e Garcia Marquez, così diversi tra loro, a pensarci. Ci tocca vivere insomma con baldanza, appena scossi da amici che partono per il viaggio più lungo - molto più che appena, ma non possiamo fermarci a rabbrividire, oppure solo un giorno. E scrivendo - vi giuro: faticando sangue - ho capito non solo cosa volevo scrivere ma perfino come. Ho messo una lente davanti alla vita, ingrandendo tutto quel che valeva la pena. E ho visto a volte deformati i posti che ho camminato, gli amori che ho detestato - per il troppo geloso soffrirne, - e spesso più netti, e chiari. Così ho inventato, innestato. Inventato storie matte innestate di verità, di carne, di dolore che mi ha segato in due, che se fossi un fantoccio sarebbe uscita segatura. Ho scelto il piatto più prelibato: la surrealtà, amica sciroccata, confidente, consumatrice di stramberie come arachidi confettate. Sta lì, invisibile, ai tavolini di un caffè, e mi ascolta, e anche se non la vedo sorride. E per mimesi divento invisibile anch'io, che poi è il destino beffardo degli scrittori. Così la mia vista è più acuta e lontana. E davvero - trovato il campo da gioco - non saprei calcarne altri se non artificiosamente.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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