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La variabile umana

Ho visto finalmente Sully, film di Clint Eastwood con Tom Hanks sulla vicenda, vera, di un pilota di linea, Chesley Sully Sullenberger, che nel 2009 compì un ammaraggio di emergenza sul fiume Hudson, salvando la vita a tutti i 155 passeggeri del suo aereo dopo che i motori erano andati in avaria per lo scontro in volo con uno stormo di uccelli. E l'ho guardato tramite la lente della mia deformazione professionale, cercando cioè il senso della storia, il motivo per cui Eastwood ha voluto raccontarla. E il motivo per cui raccontiamo una storia - spiego sempre, umilmente, ai miei corsisti: cinema o letteratura fa lo stesso - è la ragione primitiva per cui lo facciamo, e per cui raccontiamo proprio quella avventura e non un'altra. Detto questo, ci ho messo un po' a capire perché Eastwood, a 86 anni suonati, sì è preso la briga di girare un film così impegnativo, forse il più spettacolare della sua carriera. Ci ho messo un po' perché il senso si svela alla fine, quando Sully, di fronte alla commissione d'indagine che deve stabilire se ha compiuto l'unica manovra possibile o ha messo inutilmente in pericolo la vita dei passeggeri, parla della variabile umana. I computer, che hanno simulato l'emergenza stabilendo che sarebbe stato meno rischioso tornare alla base, non han tenuto conto - dice Sully - del tempo. Il tempo tra l'avvertimento del pericolo e la decisione da prendere per contrastarlo. La macchina ha agito immediatamente, senza emozioni. Ossia in maniera improbabile, letteralmente disumana. A quel punto Sully chiede e ottiene che la simulazione sia rifatta inserendo tra il pericolo e l'avvio delle misure per combatterlo 35 secondi di tempo. Il tempo che lui e il copilota ci han messo a prendere la decisione di planare sul fiume. E stavolta la simulazione fallisce, l'aereo si schianta sulla pista, tutti, virtualmente, muoiono. E allora lì ho capito perché Eastwood ha girato uno dei film più densi di significato del 2016. Per dirci che l'uomo è importante. Anzi: che è la cosa più importante. E che l'arte non esiste senza l'uomo, e che l'uomo è causa e conseguenza di ogni  estro, di ogni impalcatura. E lo ha fatto da vecchio, dopo un percorso registico comunque coerente, classico e dalla poetica asciuttissima, antiretorica,  essenziale. Perché da vecchi, quando la vita scivola, si dà più valore all'Umanesimo, alla necessità, all'auspicio, di un suo ritorno trionfale. Ed è un insegnamento che tutti noi - che imbastiamo parole tentando di dar loro una direzione - dovremmo tenere a mente.

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