Mi aspettava da un bel po' dietro la porta di vetro, ci giurerei - tipo dal tempo in cui trovavi ancora in commercio le stecche del Carrarmato Perugina, - le pagine stanche di star immacolate, attaccate l'una all'altra, e disperate per non esser mai lette, e frustrate. Così l'ho pescato e aperto - stava dietro una fila di biglietti d'auguri spiritosi - e ha respirato; ha fatto un lieve sbuffo di stantìo, di polverume antico, uno scricchiolìo di artrite, e allora ho immaginato la sua vita, il tragitto dalla stamperia alla scatola, dalla scatola al camion, dal camion al distributore, dal distributore a questa cartoleria romantica, dove l'ho tratto in salvo. Emma, di Jane Austen. Mi aspettava perché ogni copia non letta di qualunque libro è come ogni persona non amata: inutile; e perché sapeva che oggi a quest'ora, in un crocevia di destini che mi hanno traslocato in collina, sarei arrivato a innamorarmene. Lo sapeva da quand'ero ragazzo, e prima ancora bambino - c'è il prezzo: £.800. Pazzesco. Da allora è lì ad aspettare me e me soltanto, con tenacia disumana. Lo sapeva quando volevo far capire a mio padre quanto mi occorresse una parola differente; quando Silvia mi parlava della canzone che più di tutte le faceva battere il cuore - avevamo quattordici anni; quando traducevo l'Anabasi; quando è nata mia figlia; quando è morta mia moglie; quando mi sono accorto che a scrivere non ero proprio l'ultimo dei tanti. C'è questo destino, che è degli scrittori e di pochi altri infelici, a vedere il tempo che hanno le cose, ad accorgersene. E questa maledizione a ragionarci su, in cerca di soluzioni al vivere - di spiegazioni - che non esistono. È una pratica disarmante, ti bagna di mille malinconie - una per ogni epoca che rimpiangi - e ti squaderna, come il vento che c'è. Una luminanza, una sciocchezza, un'unghia di diversità dai comuni mortali. Che piangono, ridono, viaggiano, fanno l'amore, senza ogni volta doverci ricamare sopra, senza cercare sempre un motivo oltre l'apparente vivere. Senza effetti collaterali. E invece te devi sempre trovare una tenerezza, lasciare un centesimo nella bocca di un albero e ricordartelo, e ritornarci quando un'altra volta la tua vita sarà cambiata e spaccarti il cuore, a ritrovarlo lì. A riannodare quanto ti detestavi, chi avevi attorno, chi ti amava, chi avresti voluto ma è andata buca, chi ti voleva e non ti sei accorto. Indossi questa parte e ti ci sei calato talmente che non distingui più chi eri, chi avresti voluto essere. Salvo poi ricordare - come una magnifica consolazione - che chi avresti voluto essere è esattamente quello che sei.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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