Non bevo caffè al caffè, anche se vado ai caffè di continuo. Se ci vado in compagnia, al massimo ne rubo mezzo cucchiaino, che vuol dire già una porzione di insonnia in più, la notte che segue. Altrimenti cerco improbabili surrogati: un orzo - In tazza piccola o grande? mi chiedono sempre, e mi perdo: è una domanda per cui non ho risposta - ovvero una Schweppes, e me ne contento; se sono solo mi porto un libro, e se c'è un cortiletto fuori del caffè, se ci cade il sole, mi ci apparecchio, e leggo come leggerebbe un gatto se sapesse farlo: strafottendomene di tutto. C'è un gusto primaverile a leggere conciati a quel modo, pure se ancora l'inverno è giovane e pieno; ed è un vezzo da artisti che indossano il Panama, lo poggiano sul tavolino dalle zampe di ferro o sul murignolo curvo, sostare così. E stanno là fino alla fine del capitolo intitolato Il guerrigliero, o finché non li prende la smania di camminare. E allora sono gambe in spalla, ma solo per la cerca di un altro locale, dove sia agio sentire un po' di musica bella, mangiare, parlare di quadri e letteratura. Perché nel frattempo non sono più solo, qualcuno mi ha raggiunto, e beviamo. Io sempre analcolico, da artista tutto lunare: un chinotto con la scorza di limone, la cosa più prossima al vino che posso reggere. Lei - alta e preziosa - una caipirinha, come nelle pagine da cui è uscita per venire da me a farmi l'amore. I musicisti rifiatano, posano le trombe sui cuscini, concordano il prossimo pezzo, qualcuno insinua Ci pagheranno? ché il boss del locale ha una fama cattiva. Ho corteggiato questa vita per tutta la vita, questo artistume meticcio, la bellezza di non avere orari né capuffici, la libertà di mettermi anelli alle dita, un chiodo sotto il Panama, e sotto il chiodo la t-shirt comprata a Portobello. Quando usciamo, io e la ragazza peruviana, - mi ha fatto prometterle che non sarò geloso dei suoi tradimenti - la notte s'accampa sulle strade, i ristorantini colla cera scolata sulle tovaglie; i lampioni a stelo piovono luce dentro la zona a traffico limitato. Se è venerdì - sceglierò accuratamente il giorno - c'è un cincischìo di fidanzati alle prime armi, che sperano di baciarsi prima della fine della notte; il sabato e la domenica vanno le coppie fisse a ballare; il lunedì gli amanti, a scopare, in alberghetti di vicolo. Io li ritraggo tutti, dopo averli guardati, e le storie loro diventano la mia, me ne impossesso, senza scusarmene, senza ritegno. Come allo stesso modo mi affabula la mia ragazza inventata - che me ne ricorda un'altra, vera e lontana, cui vorrei chiedere scusa ma la sua vita australiana è fuori gittata per le mie parole - e dà senso motivo e companatico al mio mestiere.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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