Io ho il sospetto che molti sospetti che abbiamo siano verità. Per esempio: che in certi ospedali ti uccidano. E che sia una pratica assai più diffusa della eccezionalità che ci raccontano. Nella mia famiglia acquisita - la prima - è successo una volta di sicuro, probabilmente due. Cento euro a un infermiere, una flebo di pietoso veleno e fine della sofferenza. Non di chi stava male: di chi si era stancato di accudire. Non ne ho le prove: ho solo tagliato i ponti con gli assassini, non voglio più nemmeno che mi telefonino, e quando sarà voglio morire a casa mia, nella stanza del camino, dove l'infinito passato e il liquido presente si sposano ogni volta che torno. Ho poi il sospetto che questo nome del cazzo che mi ritrovo - eco accorciata del cognome - mi fraintenda: è uno pseudonimo? mi chiedono; uno scherzo ben architettato? Non posso usarlo senza spiegare la perversione di chi - innocente - mi battezzò, e allo stesso modo è un vantaggio, è partire sempre uno a zero, perché si ricorda facile. Per quello non ne ho altri, inventati dalla mia testa volante. Sospetto anche che tutta questa esposizione mortifichi il nostro privato, che l'esaltazione di chi dichiara la sillaba referendaria sia una violenza inaudita. Il mio voto è sacro perché segreto, e segreto perché sacro; è l'arrivo di un cammino che ho fatto con tutti gli altri - in una comunità - ma che alla fine produce una mia scelta. Intima. Che non devo, non voglio, non posso pubblicare. La segretezza è una conquista civile: è la libertà del singolo in una società di uguali. Chi insiste a urlare sì o no non tradisce solo la sua libertà, ma la mia, il mio diritto a non sapere come la pensa. E inoltre. In televisione passa sempre qualcuno che ha da venderti qualcosa: ho il sospetto - ecco - che non invitino nessuno che non sia commerciante di romanzi, o film, o canzoni. Uno che ha una bella cosa da dire ma nessuna merce pronta allo spaccio. E gli eventi a ingresso libero, come martedì a Perugia. C'era Vecchioni: posti presi dalle autorità, tutti i migliori, tutti davanti. Arrivi un'ora prima e ti mettono dietro; quelli arrivano in ritardo e stanno in prima fila. Ho il sospetto che ci sia una democrazia di parole e una - mortificata, storpia - ancora in viaggio. Ho il sospetto di essere diseguale, nonostante ai comizi giurino il contrario. E infine ho il sospetto del playback, ai concerti. Credo sia il minimo pagare ottanta euro per guardare qualcuno muovere la bocca, se ti fai abbindolare te lo meriti. E infine infine, come un diffidente post scriptum, ho il sospetto che anche stavolta qualcheduno mi prenderà sul serio. Invece è tutta invenzione, tutta letteratura. Non è successo niente di quel che racconto, non ci sono doppifondi, tutto è compiuto come doveva e chi sospetta il contrario è in malafede. O non ha mai letto un romanzo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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