Chissà se a dispetto del proverbio, con la sonno-lenza si pigliano almeno i pesci più sciocchi. Perché io di dormire avrei un gran bisogno, e per qualche tempo m'accontenterei. Tirerei su carpe svampite e lucci tardi, e la loro distrazione mi darebbe di che sfamarmi. Scriverei in tal caso più epidermico - cosa di gran moda, mi dicono - e scalerei le classifiche come uno sherpa il cappadue. E sì che un tempo mi addormentavo anche sugli strapuntini, stilita improvvisato che non ero altro. Frequentavo il sonno come un buon amico; mi raggiungeva e stavamo insieme, specie al tempo dell'università, dei pomeriggi piegato sul tavolo della cucina - il mio fortilizio - a studiare Delogu e i suoi longobardi: Alboino, Rosmunda, e poi la gran dormita. Era l'epoca delle non velleità, in cui vivere mi bastava e non cercavo scorciatoie per essere infelice: scorribande d'arte, scritture pretenziose, fama. Dovrebbe incoraggiare a far niente, la cultura occidentale; all'invisibilità, all'inettitudine. Quella sì che sarebbe la vita perfetta. Come che sia, la cucina - col suo tavolo abbitorzolato da un pentolino bollente, i suoi mobili di formica arancione - dava su via Vittorio Emanuele, e stranamente lo faceva anche se non m'affacciavo, a sfregio del mio patologico sospetto che il mondo non esistesse se non lo guardavo. Ho ricordi pari alle monete di un milionario, ma assai meno spendibili. Ho i ricordi dell'odore delle persone - il dopobarba di Rico - e del rumore delle noci tra le mani di Bruna, che mi faceva il gioco dell'indovina e mi graffiava i palmi col guscio. Lo so che vi siete rotti le palle di sentirmi raccontare queste boiate, ma mica vi costringo: è che è un periodo così. Del resto tutte le persone felici che conosco sono gente senza memoria e senza fregole creative. Vivono il presente, villeggiano in camper, frequentano gli ipermercati per il gusto. Se non ricordassi di continuo, come una canna d'acqua che esplode dalla vescica di un monte, non avrei titolo per essere tristalgico - che non è un antibiotico. Vuol dire - giuro - triste e nostalgico. Tutti gli scrittori lo sono. Così mostrandomi, posso sperare di essere anch'io parte di quella schiera di matti.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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