L'autunno ha un temperamento malinconico, come una persona schiva. Ho fatto la salita che sta sotto casa al contrario - e come ogni difficoltà presa al contrario è diventata semplice - e me ne sono riempito gli occhi, ieri, che già annottava. C'è un'oscurità più densa e pulita, quassù, è come tuffarsi in un immane squaglio di cioccolata: un secolo che non mi ci avventuravo, in una notte tanto primordiale. A piedi, a cauti passi, colla torcia del cellulare, ho bevuto un nero senza fumi, senza le sbiancature di fabbrica della città. Chinandosi, piovevano i rami un inchiostro vischioso, tutto intorno, e mangiava le pietre, i dirupi, le mie scarpe. Dolcemente, però, come appunto farebbe coi suoi atti necessari un uomo retto; e risoluto, che non si ferma a compatire il disastro ma passa oltre. Io ho fatto come quel buio, sono passato oltre, ho coperto tutto, il dolore non lo vedo più. L'oscurità fa il suo dovere: è un manto; è dio - ho pensato - che scende a patti con l'umanità, le perdona i baratri di cattiveria, la acceca per non farle vedere di cosa è capace e per qualche ora, ogni giorno - finché non saprà coglierla - le da un'altra occasione. Come che sia, poi sono arrivato in paese e - vi giuro - ogni volta mi sento dentro a un presepio, statuina dinamica che scatta foto e s'acquieta. C'è un campanile illuminato, un orizzonte di campi che sembrano il mare, la città di metallo, laggiù, da cui sono scappato, un cielo come sopra al Loch Ness, un bar dove ho comprato una bustina di M&M's e fuori - ad aspettarmi - la pioggia. L'ho presa tutta, perché senza ombrello e cappuccio, e ci vuole mezz'ora per risalire a casa. Ma che gli fa. Tornando in quota il vento invernale, che ho capito qui gioca d'anticipo, mi ha gelato i capelli zuppi: ancora niente tonsillite, tuttavia. Mentre racconto, dico, che è l'indomani. Anche gli scrittori talora sacramentano, e vi risparmio il riassunto del mio turpiloquio. Devo dire fantasioso, però: fantasioso. In salita la salita è tornata per l'appunto salita, è opportuno che lo ripeta tre volte - la semplicità complicatezza. Ma è il vecchio discorso delle due facce della stessa medaglia: per goderti la vita devi un po' patirne. Si da il caso che anche erotismo e astinenza siano fratelli. Per dire. Sotto la doccia bollente, a casa, ho riavvolto il nastro, fatto un'altra volta il conto di strazi e trionfi e ne è venuto un computo che uno di questi giorni racconterò. Per adesso sto, come in quel gioco di carte. Sarebbe bene che non cambiasse niente, per come le cose si sono apparecchiate. Se non esiste perfezione, questa imperfezione presente - per vivere - è la più perfetta. E il buio intorno, attaccato a tutto quello che c'è, nasconde pietoso gli altri colori, qualsiasi pentimento, ognuna velleità.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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