C'è questa malnascosta cospirazione nella mia famiglia allargata che aspira a farmi tagliare i capelli. Che a onor del vero non sono così lunghi - biancastri sì e ingovernabili - ma niente, loro li vedono esagerati. Per cui mia suocera a mia figlia: Ma che tuo padre vuole fare il ragazzino? e io a protestare che no, non voglio, non volevo farlo neanche quando lo ero, figuriamoci adesso. Così mi rincresce consigliare a tutto il parentado la buona pratica dei cavoli loro, ma non c'è altro sistema per farli smettere.Che poi mica se la piantano: rallentano, fingono di parlarti d'altro, poi ricominciano la solfa. Io i cavoli miei me li faccio finché con qualche comportamento storto qualche gentiluomo non mi fa un'invasione di campo. Presempio stamattina. Andavo a buttare la differenziata, dieci minuti buoni per dividere la plastica dalla carta, il vetro dall'umido. E invece arriva un tipo bello e svaporato, con la sua ragazza dal labbro orecchinuto, che svuota nel primo cassonetto che incontra tutta la sua pingue pattumiera. Davanti a questa roba sono disarmato, ed è la stessa sbilenca emozione che ho provato ieri, ceppone che non sono altro, quando sono andato a votare. Alla fine abbiamo crociato quel sì o quel no in tanti: undici milioni - undici milioni di cepponi - non abbastanza però perché il gioco fosse valido. Io mica ho capito perché tanti non vanno a votare. Qualcuno prova a spiegarlo, ma non ci arrivo. Non è un discorso, nella fattispecie, di lobby del petrolio, di inviti a non andarci che paiono giganteschi nella loro gravità - specie se arrivano dalle istituzioni. No, è proprio che non capisco come un popolo che ha il diritto di voto non lo eserciti in modo più convinto. Di qualunque questione si tratti - e del resto quella di ieri non mi pareva così secondaria. Infine mi ritrovo disarmato a scuola, ed è il motivo fondamentale per cui ho smesso. Non ho cuore, non più, a sentirli parlare di acidi, di polizia che gli ha perquisito casa, di sballi, con la fierezza con cui ci si vanta di un pregio. Non ho voglia di raccontare ciò che mi ha fatto così male da farmi vivere meglio - il quinto canto dell'Inferno, come epitaffio sulla mia carriera di prof - a chi non alza mai gli occhi dal proprio cellulare. Non è nemmeno una questione di principio. No, è proprio un fatto di sopportazione: l'ho finita completamente e non ho - appunto - armi per combattere. Né voti, né richiami, né sospensioni. E se telefono a casa i genitori sono alle apericene, e risponde la domestica lituana. Io il lituano non lo so, e metto giù.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post