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Dichiarazione d'amore tardiva

Ti voglio bene, sai? Non mi credi? Ti voglio bene, me ne rendo conto quando sono via. Divagando, seguo strade non tracciate, cambio direzione, faccio inversioni a U, caracollo, e più lontano arrivo più ho nostalgia di te. Ti tradisco perché in ogni posto dove soggiorno appiccico il cuore, sono fatto così. M'innamoro al primo sguardo perfino delle stanze d'hotel, dove lascio che i miei vestiti prendano confidenza con un armadio vuoto per poi crudelmente - in capo a due giorni - strapparglieli via. M'incapriccio delle case degli amici e lascio un soldino sotto il divano, un obolo per dire Grazie, qui sono stato bene. Ma il motivo di ogni mio viaggio è in ogni ritorno, solo questo dà senso all'avventura, perché ogni viaggiatore è una corda che ha un capo anarchico e l'altro attaccato a un chiodo conficcato. Chi non ha niente da cui tornare non è un ribelle, solo un disperato.
E allora io torno da te, e in te vivo, in te ho sofferto le pene dell'inferno aspettando referti medici e implorando che non fossero come poi sarebbero stati, in te ho fatto l'amore più immeritato con la donna più desiderabile, in te ho benedetto la vita e maledetto dio. In te, che sei casa, la mia casa, che sei come t'ho voluta e come t'ho vissuta, ho costruito spazi di benessere che mi schiarano la vita -  quando sono fuori: la sera a scuola, o a spacciare ai romantici le mie parole scritte -  e emozionano l'attesa di ritrovarli a uno svoltare d'angolo. Sei piccola come un amore intimo, rassicurante come una donna forte - la sola categoria di donne di cui uno come me può innamorarsi. Hai stanze poche e abbracciate l'una all'altra, e c'è abbondanza di libri scelti, e nelle ceste riviste di cinema e nessuna di scandali e motori. So perfettamente dove occuparti se mi occorre mezz'ora di benessere: la poltrona accanto alla lampada a stelo -  preferibilmente d'inverno -  una coperta sulle gambe e un romanzo di spettri in mano. In quel momento - nella penombra fetale -  non ho figlie e non ho doveri, non sono vedovo e non sono innamorato che di me stesso. Ti curo e trascuro. A volte cambiando parete a tavoli e scansie di fumetti ti faccio il solletico, ma è come chiedere a una donna che si ama di cambiar pettinatura o la fede da un anulare all'altro: una ricerca umana di perfezione.
Spalanco la portafinestra del terrazzo, al primo assedio di primavera, e ti colori di giallo e il taglio di luce s'infittisce di polvere; sul pavimento impronte di scarpe da tennis, e ragnetti pencolano dai ripiani della vivanderia: è il momento di darci dentro a pulire. O a ottobre invecchiato, che l'ora legale è finita,  preparo la cena in faccia al crepuscolo, accendo la radio, mi ascolto, o metto sul primo e mi faccio piacere il quiz di Amadeus.
Ti voglio bene, casa,  al netto del disamore per tutto che talora mi stritola, e te ne voglio anche se sono nato altrove, anche se ho detto e scritto che l'unica casa che considero tale è un'altra: quella di origine. A volte per scoprirsi innamorati bisogna avvicinarsi a perdersi per sempre, e non vale solo per le persone: ho progettato di venderti e mi sono reso conto che ne sarei morto. Perché qui, in tre, avevamo schizzato un disegno di vita coi controbaffi. Ora che una pepita s'è persa, il tuo scrigno vale comunque ancora qualcosa. E in fondo, tra tutti quelli che questo scempio han vissuto, tu sei l'unica -  mia casa/fortezza/memoria a tua volta innamorata - del tutto innocente.









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