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Visualizzazione dei post da agosto, 2013

Lo Speco e la collina ammazzamotori

Devi arrivarci a piedi, non ci son santi. O meglio, ce n'è uno ma è appunto per lui che sei lì: è da trogloditi arrivargli col muso del Suv davanti al cancello. Parcheggia dove c'è il parcheggio, facile, e fattela tutta in apnea la salita, mica muori, son solo duecento metri. Un'erta, tipo la celebre ammazzamotori che porta al deposito di Paperone. Ma qui il tesoro è più prezioso, ancorché intangibile. Quando sei in cima respira, prenditela calma, guardati attorno: sei in paradiso. Il paradiso a venti minuti di macchina da Terni, anche meno da Narni: lo Speco Francescano, dove il santo di Assisi soggiornò, predicò purezza d'animo e umiltà, dove giocò, rise e dormì sulla roccia, dentro una spelonca fredda anche in agosto. Ci sono andato ieri, da solo - non c'è bisogno di essere credenti di ferro per salire fin lassù: è un luogo umanamente sacro -  per un grappolo di motivi che mi ci hanno spinto e che ho lietamente assecondato. Il primo è che avevo bisogno di si

Sul fanatismo

Osservare in silenzio e prendere appunti dentro la testa. Una ricetta facile, se ogni tanto scrivi una storia che ha la fortuna di finire in un libro. Così i tuoi mille lettori non possono contestarti che giochi troppo di fantasia. E osservare apre gli occhi -  cosa meno ovvia di quel che sembra -  perché guardiamo troppo senza vedere. Io per dire mi diverto a studiare i fanatici e il modo in cui manifestano il loro fanatismo. Qualche esempio. All'edicola dove mi fermo tutte le mattine ho scoperto un signore che ogni mese compra un consistente numero di albi a fumetti. E fin qui. Solo che lui li sceglie. Si fa consegnare dal giornalaio cinque o sei copie dello stesso numero dello stesso personaggio. Le soppesa, le scruta davanti e dietro, ne studia le pieghine, la rilegatura, passa le dita sulla costina in cerca di imperfezioni. Poi acquista la copia più immacolata e se ne va soddisfatto. Un collezionista della perfezione, un utopista, in fondo. Altro esempio: le fanatiche dei g

Primo amore, come stai?

A pensarci bene sono nato nel medioevo. Le figurine si incollavano ancora con la coccoina, quelle dei calciatori le regalava la Domenica del Corriere; in tv la più bella era la Carrà, i più bravi - ma bravi sul serio - Corrado, Walter Chiari, Tortora e Vianello. Guardavamo le partite alla radio e viaggiavamo di fantasia, tra gol sperati e scongiurati. I pomeriggi d'inverno mi morivano negli occhi man mano che si scuriva la montagna davanti casa, e allora era tempo di compiti. E di antibiotici, le tante volte che stavo male. O m'incappottavo e scendevo in tabaccheria, dove mio padre e tutti gli adulti fumavano davanti ai ragazzini e nessuno che si sognasse di dirgli di smetterla. Ora non si può fumare neanche all'aperto ma abbiamo città avvelenate da industrie e automobili. E però questo non c'entra. Al cinema sotto casa davano  Ben Hur e I dieci comandamenti , non esattamente delle anteprime. Il primo film che vidi a Terni credo fosse Zanna Bianca , avrò avuto sei

Ricordi per farci una guerra

Succede come quando butti un sasso in uno stagno e si formano cerchi concentrici che si allontanano dal centro. La solitudine è quando tutti hanno qualcosa di meglio da fare che stare con te o ti invitano a improponibili feste in piscina con la musica di Fedez e Mengoni. E a pensarci: la parola solitudine è un inganno. Fa pensare a un'attitudine al sole, invece è un rimestare nel buio, la punta di una penna intinta in un calamaio. Mi salvano dal torpore le mie parole, che s'arrampicano su per il tempo fino a che la memoria ce la fa, fino a convincermi che quel che ricordo sia reale, non un arbitrio della fantasia. Di ricordi spaccacuore ne ho per farci una guerra. Uno porta dritto a mio zio, il fratello di papà, maestro di pianoforte, morto improvvisamente nel '95 a neanche settant'anni. Lui è stato un baluardo della mia infanzia. Lavorava a Roma, faceva l'assicuratore. Si sposò tardi, finché fu scapolo visse con noi. Tornava in treno ogni pomeriggio alle qua

Il cielo vuoto

Stamattina, calpestando l'ombra dei palazzi, nel tragitto infocato tra la radio e la macchina, ragionavo sulla sofferenza. Quella di mia moglie, che è stata privata della cosa cui più teneva: la sua famiglia; e la mia, che sono stato ingannato da chi credevo sincero sulla malattia e sul tempo che le restava da vivere. Un anno fa, di questi giorni d'agosto, ho intuito che eravamo alla fine: ben più tardi di altri che - sapendolo -  han deciso che non era il caso di dirmelo. Fino all'ultimo ho però sperato di sbagliarmi, ho sperato che quella debolezza invincibile, quella voce sottile, quegli occhi da uccellino fossero solo un effetto accettabile, passeggero, di farmaci risolutivi. Chi segue con affetto quanto scrivo (grazie davvero) sa che non mi tiro indietro a raccontare perfino l'intimità perché mi serve per inchiodare tutto alla memoria. Non voglio dimenticare. Vorrei soffrire meno, quello sì, ma vorrei ricordare ancora di più. Insomma, il tre agosto del 2012 io e Al

Dueagostoottanta: la perdita dell'innocenza

La mattina del due agosto Ottanta faceva caldo da morire. Mio padre mi portò a vedere il rudere che aveva comprato a Itieli, entusiasta, e io - ragazzino - ci andai volentieri perché vedere mio padre sorridente e di buon umore era evento raro. Una volta lassù mi parve che aveva preso una cantonata ma non glielo dissi: un intrico di rovi, cespugli, erba alta, serpi, e giusto una stalla sventrata come da un bombardamento. A lui luccicavano gli  occhi. Pensai che rimettere in sesto quel disastro era impossibile. Mi colse anzi una fastidiosa inquietudine, a contemplare quel nulla. Disse: "Vedrai che cosa ti tiro fuori" e già m'ero stancato di avergli dato corda. A casa mangiammo e poi lui andò in salotto e accese la tv. Mentre finivo il gelato ci chiamò, a me e a mia madre. La voce gli tremava. Il tg trasmetteva le immagini di uno scempio:  la stazione di Bologna. I morti, il sangue censurato, le notizie che si accavallavano, la concitazione degli inviati, le facce gialle,