Leggo su Repubblica di oggi una bella iniziativa di alcuni utenti facebook che rivendicano il loro diritto a usare la bici in città senza finire investiti. Le statistiche sono effettivamente preoccupanti: in soldoni quasi un ciclista al giorno viene investito in Italia, con conseguenze spesso gravi. Mi è piaciuto soprattutto l'articolo di Paolo Rumiz a corredo del pezzo. In sostanza, lui dice che coloro che vanno in macchina invidiano a chi va in bici una cosa molto semplice e fondamentale: il tempo. Tempo da spendere come meglio si crede, tempo da impiegare a fermarsi a prendere il giornale senza preoccuparsi del parcheggio, o delle code. Tempo per godersi uno scorcio cittadino di cui i possessori di Suv ignorano l'esistenza. Senza contare il risparmio economico e l'impatto ambientale pari a zero. Se tutti usassimo meglio e di più la bici, faremmo una rivoluzione più importante di qualsiasi rinnovamento tecnologico. Come non essere d'accordo?
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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